Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
C’è una ragione ecosistemica che rende l’alimento locale e stagionale migliore. Non è il consumo a chilometro zero che salva il Pianeta.
Continua il viaggio di Grammenos Mastrojeni alla ricerca di soluzioni che possono condurci con i nostri comportamenti verso una felicità sostenibile. Dopo aver esplorato il tema della sicurezza alimentare, di una dieta corretta e analizzato il nostro sistema alimentare, qui ci fa riflettere su come qualità del cibo tende a coincidere con vicinanza e varietà naturale.
Nell’alimentazione qualità tende a coincidere con località. Oltrepassando la specifica questione della carne se – oltre al mercato del milione di hamburger al minuto – si restringe l’abitudine dell’olio di palma dove le palme non crescono, dell’ananas al Polo Nord, delle fragole a novembre, si compie un dosaggio di qualità e salute al posto di un’insalubre abbondanza. La sovrabbondanza che ci nuoce non è solo di calorie o colesterolo, ma anche di varietà innaturale. Dedicando i risparmi derivanti da una ricomposizione del carrello della spesa ad aumentarne la qualità complessiva, finisce che scegliamo prodotti più locali: anche se non ci interessa il “chilometro zero” per salvare il clima.
I pesanti interventi di conservazione, refrigerazione, imballaggio e condizionamento degli alimenti importati da lontano incidono indubbiamente sulla loro salubrità e sul loro pregio gastronomico. Ma anche se non fosse così, vi è una ragione ecosistemica che rende l’alimento locale e stagionale migliore, anch’essa generata dalla co-evoluzione dell’umanità con i suoi territori di stanziamento. Limitandosi a un esempio, i frutti, per assolvere alla loro funzione di portatori di semi, hanno bisogno di essere mangiati e ci riescono dando esattamente ciò che serve ai loro consumatori in ciascun contesto geografico. Le palme da dattero punteggiano zone aride fornendo esattamente le sostanze più utili in zone aride, imballate da madre natura con una scorza che le mantiene lungamente fruibili in quei climi. Quelle da cocco provengono da zone piuttosto piovose, tipicamente le coste tropicali, ma ove le temperature rendono essenziale idratarsi: se si dà da bere pura acqua a un disidratato si rischia di ucciderlo; l’acqua di cocco somiglia invece per composizione al siero fisiologico e comprende quei sali minerali e zuccheri essenziali per superare la disidratazione. In più ci giunge solidamente imballata in un contenitore assolutamente riciclabile che presenta non uno, bensì tre fori soffici che rendono agevole estrarre il liquido. Se vi fosse un unico foro, la pressione atmosferica impedirebbe la fuoriuscita, ne servono due con un terzo di riserva.
Senza estremismi – un’eccezione ogni tanto rincuora, è una scoperta, e fa persino bene – ma una dieta ove prevalgono bacche di goji dell’Himalaya a Lecce e papaie brasiliane a Stoccolma, oltre al pesantissimo impatto sul clima e sull’ambiente, ignora la correlazione coevolutiva fra ogni territorio e i suoi abitanti. Pertanto, se abbiamo scelto la composizione della piramide alimentare ci diamo i mezzi economici per scegliere anche la qualità degli ingredienti; ma quest’ultima, a sua volta, implica un forte aumento della località e stagionalità degli alimenti che consumiamo. Significa mettere in moto una catena economica che toglie moltissima povertà dal settore agricolo, nei paesi ricchi e ancor più in quelli in via di sviluppo.
Il circuito dell’allevamento e agricoltura industriali, e della loro grande distribuzione, richiede infatti notevoli investimenti che solo pochi possono compiere: meccanizzazione, trasporto, conservazione, trasformazione, imballaggio, commercializzazione, su una scala che è alla portata solo dei più ricchi e potenti. Ciò, tuttavia, fa emergere sul mercato pochi produttori dominanti, intermediari, trasformatori e distributori che dettano legge. Decidono loro cosa si coltiva e quale sarà il prezzo pagato, calcolando come assorbibili gli enormi sprechi che ne derivano: tutte le produzioni di coloro che non riescono a stare sotto il misero prezzo imposto rimangono invendute e vanno spesso distrutte.
Ne deriva, anche nelle regioni opulente, quell’agricoltura depressa, che ha perso la propria identità e dignità, che fa vivere l’agricoltore nell’insicurezza e lo costringe a ricorrere ai caporalati, e ad avvelenare le falde dell’acqua che beve lui e i suoi figli. Che è anche un’agricoltura che deprime l’insieme delle attività circostanti. Non c’è turismo, non c’è gastronomia, non c’è smercio locale intorno a un campo di mais industriale. Un’agricoltura che, alla fine, sta spingendo il 60% dell’umanità a fuggire le campagne per affollare le città, cosa che a sua volta fa scattare un’ulteriore serie di nefaste catene causali: fra l’altro catene di amplificazione della crisi climatica, inquinamento, marginalità, criminalità, emarginazione femminile, e migrazioni.
Quindi, cosa inietto nell’economia e nell’ecosistema – le due parole dovrebbero coincidere se ci ricordassimo che hanno la stessa radice “oikos”, ovvero casa – se scelgo di mangiare bene e quindi più locale e stagionale? Posso calcolare i miei impatti come minuscoli contributi a ridurre l’impatto distruttivo di tutte le catene consequenziali appena descritte. Ma vi sono anche iniezioni positive, non solo di riduzione degli impatti nocivi.
Posso provare a ipotizzarle su due dimensioni:
In termini economici la mia scelta di mangiare meglio si traduce nel creare una “domanda”, che a sua volta genera “un’offerta”. La domanda sarebbe di qualità che si può remunerare meglio con i risparmi sulla composizione della dieta e le quantità. Ma poiché qualità = località, significa che rivolgo la mia domanda al mondo rurale che mi circonda e quindi gli offro un’alternativa all’obbligo di sottostare ai prezzi imposti dal mercato internazionale. Gli agricoltori della mia zona possono produrre meno, ma migliore.
Questa domanda economica dovrebbe far scattare presso l’agricoltore una forte domanda politica di tutela del territorio, perché non si può coltivare qualità condita con diossina: il “finto bio” o il tradizionale farlocco sono una bugia che non regge su un territorio locale, dove si sa benissimo chi bara. E se all’inizio questa domanda politica di tutela del territorio può essere puramente tecnica – meno attività e presenze industriali inquinanti, perché si sa cosa c’è nella mia mozzarella – in seguito diviene culturale, paesaggistica e di legalità. Rapidamente l’agricoltore che ha puntato sulla qualità e sull’identità territoriale unica del suo prodotto – o agrobiodiversità – si rende conto che vi si innestano molte ulteriori opportunità economiche: turismo e agriturismo, gastronomia e ristorazione locale, produzione culturale, distribuzione oltre i mercati locali ma in volumi ridotti ad alta remuneratività unitaria – più rispettosi del clima e dell’ambiente – perché invece di vendere calorie quell’agricoltore distribuisce storia, esperienze, momenti, ovvero merci che il mercato paga profumatamente.
Ma non c’è solo la mia provincia e neanche solo l’Italia. Se il mio benessere implica la rovina di altri, il sistema si inceppa. Per esempio, la nostra scelta di poca carne ma locale, da animali da pascolo e in giusta quantità. Distrugge l’economia argentina? Muta le sorti di Irlanda e Danimarca che riforniscono i nostri supermercati? E poi, rinunciando alle catene industriali, davvero ce n’è per tutti? Certo i grandi produttori ed esportatori non saranno contenti e vanno accompagnati a una riconversione che comunque salvi tutto il sapere e il saper fare che hanno accumulato. Ma il sistema nel complesso ci guadagna e con lui forse ci guadagno anch’io per l’ennesima volta, e persino loro, i grandi produttori. Per esempio, se non ci fossero i milioni di hamburger al minuto verrebbero meno diverse ragioni di mercato – anzitutto la catena dei mangimi – che giustificano l’accaparramento di terre nei paesi più poveri: il cosiddetto land grabbing e il connesso rastrellamento di risorse idriche, o water grabbing.
Significa che più terre e risorse rimangono disponibili per un dignitoso e sovrano autosostentamento locale, basato sull’agricoltura familiare ad alto valore aggiunto sociale, identitario e culturale. Da un’agricoltura locale funzionale si crea inoltre il surplus di reddito – quel che rimane in tasca – per finanziare altri mercati e attività locali, che ripartono, con una rinascita dal basso degli scambi e tutte le concatenazioni produttive che sappiamo possibili perché funzionano da noi: agro- ed eco-turismo, tra l’altro. Contemporaneamente, il sostentamento dei più poveri tramite la piccola agricoltura familiare può rimettere in moto un’agricoltura a emissioni zero, a ciclo chiuso, o addirittura un’agricoltura che aiuta a combattere il cambiamento climatico perché assorbe carbonio. Nutrire 7 o anche 9 miliardi di persone, nelle giuste dosi per tutti, si può fare per lo più localmente a emissioni zero, con prodotti migliori, organizzando una buona interazione fra ecosistema spontaneo, allevamento e coltivazione, e anche molta giusta scienza e tecnologia: ma deve essere garantito l’accesso alla propria terra e se noi – i ricchi – scegliamo tanta carne che butta acqua in padella, tanti avocado colti acerbi che sanno di nulla, tantissimi biscotti con qualcos’altro al posto del buon burro e olio d’oliva, facciamo male a noi stessi e togliamo le terre quei popoli che poi vorremmo “aiutare a casa loro”. Che poi si impoveriscono e, disperati, vanno nelle città sovraffollate – così nefaste per il clima – ove integrano la criminalità e la marginalità, oppure passano dall’agricoltura al commercio di droga, o alle formazioni paramilitari, e fanno scattare quegli altri effetti che portano un bambino migrante a morire su una spiaggia turca o a un attentato a Bruxelles. E che conducono noi, Europa, a perdere la nostra anima e ragione d’esistere in un improvviso e antistorico ritorno di nazionalismi ottusi.