Pedalando verso il benessere
Continua il viaggio di Grammenos Mastrojeni alla ricerca di soluzioni che possono condurci con i nostri comportamenti verso una felicità sostenibile. Abbiamo esplorato il tema del
L’anomalia umana rispetto alle altre specie è la ricerca della massimizzazione del profitto. Cambiare la prospettiva si può senza rinunciare a quasi niente.
Continua il viaggio di Grammenos Mastrojeni alla ricerca di soluzioni che possono condurci con i nostri comportamenti verso una felicità sostenibile. Dopo aver esplorato il tema della sicurezza alimentare, di una dieta corretta e analizzato il nostro sistema alimentare, su come la qualità del cibo coincide con vicinanza e varietà naturale, ci ha fatto riflettere su come le nostre scelte di abbigliamento incidono sulla salute del Pianeta. Qui analizza il meccanismo che ci spinge a consumare all’infinito.
Quando si tratta di affermare il proprio status – come succede con il vestiario, ma anche con smartphone, automobili e così via – noi umani consumeremmo all’infinito e, in questo modo, quasi tutti si ritrovano con armadi intasati di capi d’abbigliamento effimeri e non usati; oggetti che pago sottraendo risorse ad acquisti più utili per arrecarmi, in sostanza, un danno. Occorre occuparsene malgrado non si usino, ci costringono a cambi di stagione più complicati della logistica di un supermercato, occupano spazi e chiamano tarme e acari; e spesso sono stati acquistati a un prezzo sproporzionato rispetto al loro obbiettivo e materiale valore. Con l’ulteriore problema che quasi sempre l’agognato status non ce lo danno.
Questo è il nucleo motivante dell’anomalia umana rispetto a tutte le altre specie, che ci porta a cercare la massimizzazione del profitto nei suoi aspetti incentivanti all’azione, certo, ma anche nei suoi riflessi disfunzionali e autolesionisti. Anche il reddito nel suo complesso è soggetto alla curva dell’utilità marginale: oltre un certo limite arreca più danni che benefici poiché inquina le nostre vite con la spesa e la manutenzione di beni che non ci servono, acquistati nell’illusione che soddisfino un obbiettivo di piazzamento sociale mai raggiungibile con quei beni.
Il reddito eccessivo è disutile anche perché si configura come una sottrazione di risorse, per fini superflui e dannosi per me, a chi di quelle risorse avrebbe invece davvero bisogno. Esso fa quindi partire retroazioni difensive nel sistema – è bello essere imperatore, ma cercano di ucciderti per prendere il tuo posto – che creano conflitto e insicurezza anche ai vincitori delle competizioni. La massimizzazione del profitto – e la vita spesso insalubre, stressata, povera di significato di chi la persegue – serve a finanziare non ciò che è obbiettivamente utile per conquistare benessere, bensì le irrazionali impennate delle curve di consumo che si distanziano dall’utilità marginale. Se attribuissimo il prestigio sociale non a chi ha troppo e lo esibisce, bensì a chi serve sé stesso, la comunità, e il pianeta possedendo il giusto ed esibendo ciò che realmente crea un’immagine positiva, non avremmo né il problema della diseguaglianza, né molte guerre, né tantomeno la crisi ambientale.
Facile a dirsi, ma ci sono due obiezioni.
Perché bisogna rovesciare la piramide dei bisogni
Succede che la condotta sostenibile è anche quella che tende a porre tutti sul punto più alto e soddisfacente della curva di utilità marginale di ciascuno. In pratica, se consumiamo nel rispetto della giustizia e dell’ambiente non ci priviamo di nulla, anzi automaticamente ci collochiamo nel punto di massimo benessere e soddisfazione.
Ripartiamo dalle piramidi rovesciate della nutrizione che abbiamo incontrato nei primi post. Esse valgono in realtà in tutti i settori e ci insegnano che benessere e salute individuale si conseguono quando si rinuncia alla sovrabbondanza nociva. Si tratta di benessere e salute fisiologici nel caso del cibo, mentre nel caso del vestiario entrano in gioco aspetti più psicologici e sociali. In pratica – pertanto – la prima piramide descrive la curva dell’utilità marginale e consiglia di consumare fino all’ultima unità di qualunque bene che ci reca utilità e di non inoltrarci, invece, in ulteriore possesso dannoso.
Tale condotta porta a un minor impatto sull’ambiente,
non tanto perché si consuma collettivamente di meno: un gruppo di 100 obesi e 100 affamati probabilmente mangia tanto quanto un gruppo di 200 persone nutrite bene. Piuttosto, la sintonia con l’ambiente deriva dalla equilibrata distribuzione fra tutti e ovunque – che suona come “giusta” distribuzione – di produzione e consumo sovrani: senza polarizzazioni che creano prezzi sociali e ambientali da pagare poiché la natura entra strutturalmente in degrado con le diseguaglianze, avendo raggiunto il proprio equilibrio in una distribuzione ripartita delle proprie energie, attraverso milioni di anni di adattamento.
In pratica, l’eccesso nocivo per me e per l’ambiente da cui io mi astengo rimane disponibile per chi ne ha bisogno che, a sua volta, può farne uso e farlo fruttare in condizioni di compatibilità con l’ambiente, e di autonoma e libera determinazione del proprio futuro. Ne deriva che:
Tuttavia, in assenza di pressioni distruttive sull’ecosistema e di polarizzazioni eccessive e ingiuste, ovvero in assenza di prezzi da pagare, vengono meno le retroazioni difensive del sistema naturale e sociale, che di solito prendono la forma di insicurezza e conflitto. Esse erodono il benessere di tutti compresi gli apparenti vincitori – come l’imperatore che deve sempre guardarsi le spalle – di modo che senza conflitto il sistema torna a curvarsi su di me restituendomi un’ulteriore amplificazione del benessere. Per cui, possiamo concludere che questa è l’equazione di un equilibrio senza “trade off” – rinunce necessarie in cambio di certi vantaggi – ovvero il pianeta della botte piena e moglie ubriaca in cui viviamo, quello della felicità sostenibile.