Cercasi nuovo modello tedesco

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Cercasi nuovo modello tedesco

Il modo della Germania di fare economia, specialmente a livello globale, è stato criticato e odiato, ma sempre studiato e inevitabilmente copiato. Oggi questo modello è stato messo in discussione. Cosa può cambiare in Europa.

Per sollevarsi dalla crisi in cui si trova, la Germania è alla ricerca di un nuovo modello di economia e i suoi imitatori e critici, vicini e lontani, attendono di codificarlo consapevoli che ignorare le scelte economiche tedesche sia un’illusione, prima che un errore. C’è un adagio talmente apocrifo da non aver bisogno di smentite, a dirci come siano stati per primi gli americani, decenni fa, a promuovere l’imitazione di un modello tedesco: When in Europe do as the Germans do.
L’esempio però è stato anche ostacolato, soprattutto sui banchi di scuola delle istituzioni europee, dove per anni, ogni Paese almeno una volta ha preso lezioni dall’Alte Meister tedesco, il paese vecchio maestro dei conti.
Ma rimaniamo per un attimo nell’astratto: se è un modello, benché odiato, è perché ha garantito la leadership a chi l’ha promosso, ovvero la capacità di influenzare la scrittura delle regole per essere il migliore ad applicarle ed a farle rispettare.

Così, per decenni, la Germania ha disegnato il perimetro d’azione delle economie e delle istituzioni europee e non solo, finendo per influenzarne, se non addirittura vincolarne le scelte, giuste o sbagliate, per sé o per chi le attuava. Buono o cattivo, è dunque un modello che ha garantito alla Germania il potere ed il controllo politico sull’esterno, la crescita e la prosperità economiche interne, ma ha anche generato ispirazione negli altri paesi. Ma di cosa si tratta esattamente?

Come funziona il modello tedesco

Come tutti i modelli è stato strutturato su un insieme di elementi interconnessi e in grado di condurlo al successo per almeno una ventina d’anni, dato che nel 2000 la Germania era chiamata “il malato d’Europa”. Quali sono dunque gli elementi più o meno decisivi che hanno consentito alla Germania di rimanere l’azionista di maggioranza europeo, capace di condizionare paesi, imprese, istituzioni? Proviamo ad elencarne qualcuno.

  1. La vocazione esportatrice: la capacità di orientarsi velocemente verso i clienti/paesi a maggior crescita (come la Cina degli ultimi anni);
  2. L’arbitraggio della produzione: prendere quella di qualità e costo bassi ad Est, quella di qualità alta da paesi come l’Italia, e sviluppare quella specializzata in casa;
  3. L’energia: comprarla a basso costo – per lo più gas – dalla Russia;
  4. La formazione: far crescere una manodopera specializzata, anche importata;
  5. La difesa: esternalizzata, perlopiù agli Usa (versando le quote alla NATO).

Questo mix ha consentito per anni di governare l’inflazione, vendere prodotti nel mondo, tenere alto il valore del Made in Germany.  Ed ha dato forma ad un mercantilismo in cui lo Stato ha aiutato, promosso e difeso le imprese nazionali ed i loro interessi all’estero.
Parliamo di imprese incardinate nella old economy industriale, come la siderurgia e l’automotive, la meccanica, la chimica ed il farmaceutico. Ed anche spinte al massimo verso l’innovazione e la digitalizzazione.
La manifattura tedesca, fortissima, ha così ballato per anni abbracciata agli Usa, alla Cina ed al resto dell’Europa, tanto da rendere l’economia dipendente dall’export. Ma non solo. Perché ad accompagnare il ballo c’è stato un controllo del debito spinto al massimo, ed un vincolo del pareggio di bilancio orchestrati per anni dal Ministro delle finanze Wolfgang Schäuble. Più che un modello ha regnato uno stile, quello di Angela Merkel chiamato merkeln e fatto di austerità e pragmatismo, ma soprattutto di attendismo e compromessi, e del rifiuto categorico – Nein! – che l’Europa facesse debito. A battere il ritmo c’è stato anche lo spread, che pur non essendo una moneta, ha sostituito il marco tedesco come punto di riferimento condiviso e vincolante per i passi di danza altrui.

Perché cambiare il modello economico tedesco

È dunque un modello piaciuto ad alcuni, meno ad altri. Ma ha esercitato la sua azione posizionando la Germania al centro degli interessi europei e facendone l’interlocutore unico per chi veniva da fuori. L’altro ieri la Russia, ieri gli Usa ed oggi la Cina. Quali sono ora gli stimoli per cui cambiarlo, interni ed esterni, ma tutti contingenti?

Stimoli esterni

  • L’Ucraina ha cambiato le logiche di sicurezza e difesa, come quelle energetiche espresse fino a ieri in uno stretto rapporto con la Russia;
  • A proposito di difesa, gli Usa pensano ormai da tempo che l’Europa debba pagare per la propria (vedi alla voce di spesa NATO), e che la Germania debba occuparsi di sé stessa (e forse anche degli altri paesi europei, tornandone dichiaratamente egemone);
  • La Cina – che per la Germania è il primo paese d’importazione con € 190 mld e per cui il 46% delle imprese tedesche usano merci cinesi e gran parte dell’automotive tedesco conta su stabilimenti e vendite proprio lì – si è ora indebolita.

Stimoli interni

  • L’economia non cresce da due anni e sperimenta l’inflazione;
  • Le sue infrastrutture necessitano una modernizzazione;
  • Il tema del lavoro è sempre più caldo;
  • Gli scioperi degli agricoltori e la crescita dei partiti estremi premono sulla politica.

Come incide il modello tedesco sulla globalizzazione

Lo stimolo più forte è però il cambiamento profondo della globalizzazione in cui è intrecciato, o forse incastrato, il modello tedesco. Un contesto che ormai cambia in tempo reale. È un intreccio chiaro proprio alla Germania, così come disse proprio Angela Merkel alla Security Conference di Monaco del 2019 citando il motto scritto nel diario dello studioso e viaggiatore tedesco Alexander von Humboldt del 1803: tutto è interattivo. Dunque, cosa succede se la globalizzazione cambia faccia e il tuo modello economico è quello tra tutti più imperniato su di essa?

La Germania alla ricerca di una nuova narrazione

Spinta da tutti questi stimoli, l’élite tedesca sta infatti cercando di decidere quale sia il nuovo modello e quello migliore. Lo fa con fatica, rischiando una sindrome bipolare in cui una parte del Paese vuol cancellare i principi che hanno retto il modello fino ad ora, ed un’altra combatte affinché restino, magari in una versione rimaneggiata. È una transizione sentita e dolorosa, ma soprattutto costosa perché questo momento costa sia in termini di psicologia collettiva che in termini reali. Per la Germania è infatti arrivato il momento di spendere e reindirizzare le proprie risorse in termini di:

  • Incentivi (per auto elettriche e case sostenibili);
  • Debito (il Fondo Monetario Internazionale prevede che quello nazionale, tra il 2023 ed il 2028, salirà di 208 miliardi);
  • Sussidi (vedi alla voce reddito di cittadinanza);
  • Formazione e riqualificazione professionale (mai andate via, ed oggi ancora più necessarie);
  • Riarmo (ancora in standby quello annunciato di 100 miliardi di euro) e difesa (con i pacchetti di aiuti in armi all’Ucraina).

Non è dato sapere se riuscirà a permetterseli tutti, ma sembrano questi gli ingredienti di un nuovo modello, così diverso dal precedente e così bisognoso di persone in grado di rappresentarlo come nuovo ed utile. Buono o cattivo, la leadership finirà nelle mani di chi sarà in grado di costruire su di esso una nuova narrazione. Un’epica moderna, altrettanto utile.

​Antonio Belloni è nato nel 1979. È Coordinatore del Centro Studi Imprese Territorio, consulente senior di direzione per Confartigianato Artser, e collabora con la casa editrice di saggistica Ayros. Scrive d'impresa e management su testate online e cartacee, ed ha pubblicato Esportare l'Italia. Virtù o necessità? (2012, Guerini Editori), Food Economy, l'Italia e le strade infinite del cibo tra società e consumi (2014, Marsilio) e Uberization, il potere globale della disintermediazione (2017, Egea).