Storia dell’Auto-Tune

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Storia dell’Auto-Tune

Chi pensa che siano i giovani cantanti ad aver contribuito al successo di questo effetto sonoro sbaglia. Il futuro della musica è cominciato nel 1998 con Believe di Cher.

A distanza di venticinque anni fa un certo effetto doverlo ammettere, ma il momento preciso che ha annunciato il futuro della musica, presentando al mondo il suono che forse più di ogni altro avrebbe marchiato il pop del successivo quarto di secolo, arriva dopo poco più di mezzo minuto del singolo più venduto del 1998. Quel singolo si chiama Believe, la cantante è Cher, e il punto-zero della nuova era è quando parte il refrain “so sad that you are leaving”. Il modo in cui risuona quel “sad” – alieno, robotico, quasi scorporato dalla stessa cantante – è il modo in cui da più di un decennio risuona il 90% della musica che ascoltiamo. Per radio, in tv, nelle playlist di Spotify, nelle top 40, sul palco di Sanremo e nella stragrande maggioranza di brani rap, trap, r&b, pop e talvolta addirittura country (il bastione del conservatorismo, insieme al rock). È il suono dell’Auto-Tune. Il device musicale più utilizzato, venerato, odiato, abusato e probabilmente frainteso della contemporaneità.

Cher apripista

Quando nel 1998 Cher, stagionata reduce dell’era hippy, fa da improbabile (ma memorabile) apripista, l’Auto-Tune ha appena compiuto un anno, essendo stato lanciato sul mercato nel ’97 dall’azienda hi-tech attiva nel settore musicale Antares Audio Technology. La storia della sua genesi è interessante e per certi versi significativa. La mente dietro la progettazione dell’Auto-Tune è quella di Andy Hildebrand, geniale matematico che si era costruito una brillante carriera nel settore petrolifero. Per la Exxon si incaricava infatti di trovare giacimenti nei quali scavare grazie all’utilizzo di complessi algoritmi di sua invenzione, che traducevano probabilisticamente i dati ricevuti dai sonar. Appassionato di musica e flautista dilettante, Hildebrand si sgancia dal settore trivellazioni e fonda la Antares, con l’intento di applicare le sue competenze matematiche al suono. Sì, ma come? Pare che l’idea per il software al quale il suo nome sarà eternamente legato gli sia venuta dalla battuta di una sua impiegata: «Professore, inventi qualcosa che mi faccia sembrare intonata quando canticchio!». Il sogno di chiunque si metta davanti a un microfono. L’involontario suggerimento si inchioda nella testa di Hildebrand, che si mette subito al lavoro. E dopo pochi anni di sperimentazioni, ecco arrivare l’Auto-Tune.

Il principio di funzionamento del pitch corrector (correttore di frequenza) è piuttosto complicato da spiegare, ma sostanzialmente si basa sull’individuazione istantanea della frequenza del cantato da parte del software. Ogni nota corrisponde a una frequenza ben precisa. “Stonare” significa avere una frequenza nel cantato che non corrisponde a quella giusta, ecco quindi intervenire l’Auto-Tune che equalizza, abbassandola o innalzandola, la frequenza per farla corrispondere a quella della nota più vicina. L’unicità di Auto-Tune, rispetto a simili programmi utilizzati già nei decenni precedenti nelle fasi di post-produzione, è che agisce in tempo reale. Il che permette di utilizzarlo anche dal vivo.

Strumento creativo

Detto che più si è stonati e più l’Auto-Tune deve forzare il suo intervento, con conseguente effetto al limite del grottesco (e con buona pace dell’impiegata di Andy Hildebrand), è evidente che il risultato ha sempre qualcosa di innaturale. Come del resto è sempre innaturale l’eliminazione artificiosa delle sporcature e dei difetti, qualunque essi siano. Ma se da un lato la storia della musica pop dimostra come non necessariamente si debba essere grandi cantanti per essere grandi artisti (Bob Dylan e Lucio Battisti sono i primi nomi che vengono in mente: immaginare Like a Rolling Stone o Emozioni “rattoppate” dall’Auto-Tune fa venire i brividi), dall’altro il momento di svolta per il miracoloso plug-in si è avuto quando dall’essere utilizzato semplicemente come ausilio tecnologico, in funzione per l’appunto “correttiva”, è diventato strumento vero e proprio impiegato in funzione creativa. È proprio questo passaggio storico ad averne determinato la fortuna, evitando all’Auto-Tune lo stesso destino di effetti sulla voce che oggi suonano come curiosità vintage quali il vocoder (chi si ricorda i Rockets o l’Electric Light Orchestra?) e la talk-box. Tutto merito dell’universo hip hop, r&b e trap che ha adottato a braccia aperte il mezzo, facendone il punto focale della propria gamma espressiva.

Da Kanye West a Beyoncé, da Lil Wayne ai Migos, da Lady Gaga (che in parte si è pentita) a… Madame, l’Auto-Tune è diventato ciò che il distorsore è stato per la chitarra rock. Tanto che è praticamente impossibile pensare il pop contemporaneo senza quella cadenza da cyborg sulle voci. C’è anche una ragione che potremmo definire generazionale: al di là della moda, quel “distanziamento” da sé stessi, quella creazione di una identità vocale fittizia e quasi disincarnata, allude a una scissione interiore, alla necessità di indossare maschere per riuscire a esprimere i propri sentimenti. E d’altra parte non viviamo forse in un mondo di filtri applicati a qualunque immagine, di “fake” ormai indistinguibile dal reale, di intelligenze artificiali pronte a essere le superstar di domani? Il che forse spiega perché a chi è giovane l’Auto-Tune pare irrinunciabile e a chi ha dai quarant’anni in su fa l’effetto dell’unghia sulla lavagna.

Il valore dell’innovazione

Come è successo in tante altre occasioni, la storia si ripete e la linea di demarcazione è sempre la stessa. Quella tra chi vuole preservare un non ben specificato alone di “naturalità”, “genuinità” e addirittura “umanità” e chi invece accetta il cambiamento e l’innovazione connessi alle nuove tecnologie (con il rischio, tuttavia, di diventare a sua volta altrettanto dogmatico: il problema con l’Auto-Tune sta infatti diventando il suo abuso, come se fosse l’unico veicolo di espressione musicale). Si pensi a quando nacque la riproduzione discografica (musica riprodotta su un oggetto e non ascoltata dal vivo in un concerto? impensabile!), a quando ci fu l’elettrificazione di folk, blues e jazz, all’introduzione della strumentazione elettronica, ai campionatori e così via. In ciascuno di questi momenti di svolta c’è sempre stato qualcuno che urlava alla violazione dei codici “naturali”. Salvo poi, in alcuni casi, ricredersi del tutto. Un esempio? I Queen nei loro primi dischi avevano l’abitudine di scrivere in copertina “no synth!”, presentandosi come gli alfieri della musica “suonata davvero” e senza diavolerie elettroniche. Negli anni 80 avranno i loro più grandi successi utilizzando i sintetizzatori più di chiunque altro. E c’è una ragionevole certezza sul fatto che Freddie Mercury, fosse vivo oggi, sperimenterebbe volentieri con l’Auto-Tune. E certo se c’è mai stato qualcuno che non ne aveva bisogno era lui.

Copywriter, giornalista, critico musicale e docente di comunicazione. In pubblicità ha ideato campagne per brand come Fiat, Sanpaolo Intesa, Lancia, Ferrero, 3/Wind. Insegna comunicazione presso lo IAAD di Torino e la Scuola Holden. Collabora con testate quali Rolling Stone, Il Fatto Quotidiano, Rumore. Ha scritto e tradotto diversi volumi di storia e critica musicale per case editrici come Giunti e Arcana.​