Felicità sostenibile: quella tee-shirt di troppo

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Felicità sostenibile: quella tee-shirt di troppo

Vestirsi per soddisfare un bisogno o per rispondere e a una finalità di prestigio sociale? Gli oggetti come status sociale sono sentiti come esigenze infinite e generatrici di insoddisfazione e di malessere per il Pianeta.

Continua il viaggio di Grammenos Mastrojeni alla ricerca di soluzioni che possono condurci con i nostri comportamenti verso una felicità sostenibile. Dopo aver esplorato il tema della sicurezza alimentare, di una dieta corretta e analizzato il nostro sistema alimentare, su come la qualità del cibo coincide con vicinanza e varietà naturale, qui ci fa riflettere su come le nostre scelte di abbigliamento incidono sulla salute del Pianeta.

Dormire, respirare… nutrirsi e dissetarsi sono necessari alla nostra sopravvivenza. Fra questi, mangiare e bere rappresentano in natura una sfida, per cui vi si legano conseguenze a parte. Anche coprirsi, ripararsi dalle intemperie, è spesso necessario alla sopravvivenza; ma in modo particolare. Respirare è imprescindibile a tutte le latitudini, mentre il vestiario non è fisiologicamente necessario dappertutto e, in particolare, non sarebbe sempre necessario alle latitudini in cui il genere homo ha mosso i suoi primi passi, fra l’Africa australe ed equatoriale.

Eppure, tutte le culture, anche nelle latitudini tropicali e pure quelle più antiche o pretecnologiche, non lasciano il corpo completamente scoperto: fin dal più remoto passato, se non ricorrevano a vestiario propriamente detto perché il clima non lo richiedeva, comunque abbondavano e tuttora abbondano gli ornamenti corporei; e questo la dice lunga sulle ragioni che guidano le nostre scelte di abbigliamento. Per lo più, non ci copriamo per supplire a un deficit unico fra i mammiferi, quello di non avere una pelliccia; ci vestiamo per ornarci, con altre finalità che tuttavia tendiamo a negare. Nel campo del cibo, ci fa bene e fa bene al pianeta riavvicinarci a una condizione naturale che dovrebbe essere di disponibilità limitata. Nel campo del vestiario torniamo a una salutare consonanza con l’equilibrio planetario se riconosciamo e poniamo sotto controllo le vere finalità delle nostre scelte. E parliamo di vestiario solo per esemplificare tutti quei consumi che servono – con ogni tipo di scusa – quasi solo il prestigio sociale.

Nel vestiario, infatti, si coagula in proporzione emblematica il meccanismo di disfunzionalità sistemica del consumismo: raramente, per ogni capo d’abbigliamento che acquistiamo, la finalità dichiarata del prodotto – coprirsi – coincide con la finalità reale della nostra scelta: mostrare quanto siamo desiderabili e importanti. Se riusciamo a ricongiungere queste due finalità – senza disprezzarne una, perché l’apparenza ha una sua funzione – aumentiamo a dismisura il nostro benessere integrale, mentre lanciamo nel sistema Terra una goccia che può diventare tsunami di cambiamento.

Dal consumo al possesso di beni

La scienza economica ha scoperto una relazione che descrive la condotta razionale nel consumo e possesso di beni, e che sembra puntare in una direzione incompatibile con l’idea che sia razionale cercare sempre di massimizzare il profitto. Questa relazione, nota come legge dell’utilità marginale, è descritta da una curva facile da capire:

  • La legge dell’utilità marginale indica che, per ogni tipo di bene, ogni unità supplementare posseduta ha un’utilità decrescente fino a trasformarsi, oltre una certa quantità, in disutilità o autentico danno. È abbastanza intuitivo. Immaginiamo di essere affamati, sull’orlo della morte per inedia. Se qualcuno mi dà una pagnotta, quella prima unità avrà per me un’utilità elevatissima, mi salva la vita. Poi mi dà una seconda pagnotta, sempre utilissima perché mi lascia tranquillo fino a sera, ma sarà un po’ meno utile della prima. E la terza sarà anch’essa un’ottima cosa, ma un po’ meno utile della seconda. Se però il generoso benefattore continua su questa strada e inizia a scaricarmi ogni mezz’ora un camion di pane sull’uscio di casa, ogni unità supplementare non solo non mi serve, ma anzi mi crea un problema, una disutilità, un danno. Gli antichi greci esprimevano questo concetto con la leggenda di Re Mida, che morì di fame poiché trasformava in oro tutto ciò che toccava.
  • La legge della massimizzazione del profitto è applicata solo dal genere umano, mentre la legge dell’utilità marginale vige in tutto l’ecosistema vivente, e questo ci dà un indizio su quale sia la condotta più proficua entro l’equilibrio terrestre: una condotta che emerge come universale, per selezione naturale della soluzione migliore per assicurare la sopravvivenza della specie.

Se una leonessa ha davanti a sé duemila gazzelle non ne uccide più che può, ma solo fino alla quantità utile. Anche presso specie che hanno un’inaudita capacità di accaparramento e stoccaggio – l’equivalente dell’umano del risparmiare e investire – vige ferrea la legge dell’utilità marginale. Se volessero, le formiche potrebbero immagazzinarsi il pianeta, ma non si trova in un formicaio un seme in più della quantità utile. In questo equilibrio, il genere umano vive una schizofrenia perché segue entrambe le leggi e il suo comportamento diventa disfunzionale lì dove esse confliggono. Noi umani ci atteniamo alla legge dell’utilità marginale quando la finalità dichiarata di un bene coincide con la finalità reale. Questo è il caso, per esempio, di un fustino di detersivo la cui finalità dichiarata – lavare – coincide con la finalità effettiva, ossia lavare: normalmente non ammassiamo detersivi in irrazionale e nociva abbondanza e ne compriamo in quantità dettate dalla curva dell’utilità marginale.

Andiamo invece fuori controllo, fino ad accumulare eccessi nocivi di beni, quando finalità dichiarata e finalità reale si divaricano più o meno esplicitamente. In particolare quando la finalità pratica – ad esempio coprirsi dal freddo – è solo una scusa per perseguire un obbiettivo di status e collocazione sociale: nella gerarchia del branco. E non vi è merce più emblematica del vestiario di questo corto circuito irrazionale, che però inquina tutta la nostra condotta fino a farci preferire di avere al posto di essere, confondendo l’uno con l’altro.

Che c’è di male – verrebbe da dire – compriamo un bene diverso che si chiama apparenza, sempre secondo la sua specifica curva di utilità marginale. Se questo fosse il nostro comportamento, sarebbe razionale e per lo più compatibile con il sistema, in buona misura lo renderebbe più dinamico. Non facciamo i moralisti. Un po’ di vanità ci vuole, è sostenibile dal sistema e anzi ne stimola la vitalità, almeno nella misura in cui serve concretamente finalità naturali come il corteggiamento.

Tuttavia, il bisogno di apparenza è percepito come se fosse descritto da una curva diversa, che non ha mai una flessione verso il basso, che tende all’infinito. Gli oggetti che servono a finalità di prestigio sociale – e lo status sociale stesso – sono ormai sentiti come esigenze mai completamente soddisfabili, infinite, dei pozzi senza fondo. Se si entra nel tunnel della gara sul prestigio tramite esibizione di oggetti, l’estrema irrazionalità è segnalata dalla comparsa di un termine infinito nella mia equazione: non si è mai contenti, c’è sempre qualcosa che manca, qualcosa che mostrerebbe meglio quanto sono desiderabile e rilevante nel branco. Partono così curve di consumo senza fine e del tutto distanti da una ragionevole spesa. E se c’è una rincorsa a soddisfare un bisogno che non è mai soddisfatto le possibili spiegazioni sono due: è un falso bisogno, oppure usiamo mezzi che non sono adatti a raggiungere la meta.

È​ Vice Segretario Generale per l’Energia e l’Azione Climatica dell’Unione del Mediterraneo. È​ un diplomatico italiano ed è stato coordinatore per l'eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo. È stato delegato alle Nazioni Unite, console in Brasile, consigliere politico a Parigi e, alla Farnesina, responsabile dei rapporti con la stampa straniera e direttore del sito internet del Ministero degli Esteri. Da una ventina d'anni concentra la sua attenzione sui cambiamenti climatici. Nel 2009 la Ottawa University in Canada gli ha affidato il primo insegnamento attivato da un'università sulla questione ambiente, risorse, conflitti e risoluzione dei conflitti. Collabora da tempo con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore.