La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
L’intelligenza artificiale è in grado di lavorare in ogni direzione. Eccetto quella della coscienza. È di questa che innanzitutto dobbiamo munirci per essere davvero insostituibili.
In greco antico, il termine mechané includeva non solo il significato di «macchina» o «meccanismo», ma anche di «astuzia» (i motivi per cui una leva potesse sollevare un peso non furono subito chiari).
Sono passati secoli e, nonostante il funzionamento delle tecnologie non sia più un mistero, perdura la nostra sorpresa di fronte a processi che poco prima sembravano non consentiti dall’ordine naturale o dall’aspetto immediato delle cose. Rimaniamo soprattutto sconcertati da quelle macchine le cui azioni sembrano sconfinare nel territorio delle capacità umane.
Mi riferisco all’intelligenza artificiale. Secondo la definizione del Parlamento Europeo, una tecnologia in grado di «mostrare capacità umane quale il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione» e persino «la creatività»; di ordinare, analizzare e classificare i dati per ottenere risultati non solo descrittivi, ma predittivi e prescrittivi; di individuare soluzioni per scopi specifici.
L’A.I. si sta espandendo in tutti i campi dell’esperienza come supporto per lo svolgimento di attività più disparate, ricoprendo un ruolo centrale nella nostra quotidianità (si pensi a Siri, ad esempio) e nel nostro lavoro. È indiscutibile: in quanto individui, abbiamo alcuni «pensieri ciechi» – citando il filosofo Leibnitz – che non possono arrivare all’essenza di un concetto se non con l’aiuto delle macchine.
L’intelligenza artificiale è giunta a una tale evoluzione (ma – è sempre meglio ricordarlo – grazie al nostro progresso) da emulare molti aspetti del comportamento umano. A differenza delle precedenti, le nuove tecnologie, ormai dotate di reti neurali che imitano a tutti gli effetti il modo in cui le cellule cerebrali umane interagiscono tra loro, hanno sviluppato l’apprendimento automatico, il pensiero logico, e quelle che gli esperti definiscono come abilità emergenti (ad esempio, la scrittura di testi o l’elaborazione di immagini). Si pensi che recentemente un ingegnere di Google ha persino dichiarato che un’A.I., LaMDA, sia senziente, cioè che possa provare sensazioni come il dolore o la tristezza.
Prescindendo da tali estremizzazioni, non si può non annoverare l’abilità di queste macchine nel campo della logistica, della pianificazione di operazioni o attività, nell’elaborazione dei linguaggi, nel controllo e nella programmazione dei sistemi.
Ammettiamolo: davanti a questo panorama è impossibile non avvertire una vertigine. È salva la nostra produttività, ma pericolosamente in bilico la nostra occupazione, soprattutto in determinati settori. Non si tratta di visioni pessimistiche ma di una lucida analisi della realtà: l’iperspecializzazione e le competenze specifiche – pienamente in possesso delle macchine – diventeranno presto obsolete. Ma non lo saranno mai (e la storia lo insegna) le doti prettamente umane.
Di fronte al progressivo imporsi dell’A.I. nel mondo del lavoro, è bene scommettere sul valore umano. Su quelle che in gergo sono definite competenze trasversali o soft skills.
Anche l’intelligenza artificiale può essere creativa. Ma la creatività diventa un elemento unicamente umano se spinta dalla motivazione, dall’intento, dal desiderio, dall’estro… e persino se contaminata dall’“imperfezione”.
Imparare non significa solo essere dotati di un filtro di riconoscimento delle singole forme (sorprendentemente, ormai l’A.I. è riuscita a superare anche lo scoglio della ricombinazione dei pixel), ma costruire gradualmente un modello astratto del mondo a cui ricondurre la nostra conoscenza. Fare riferimento a concetti e principi generali e, su di essi, sviluppare un pensiero critico.
Addestrare queste abilità – che, attenzione, non sono innate – significa affermare il proprio ruolo nei dibattiti, nell’individuazione degli errori logici, nella gestione del cambiamento.
C’è qualcosa che un’A.I. non può fare: condividere un’esperienza o un’idea, traendo dal dialogo con l’altro apprendimento e crescita. Creare conoscenza attingendo ad altre conoscenze.
L’intelligenza emotiva, lo sviluppo della socialità, la gestione del conflitto, lo spirito di collaborazione, la capacità di ascoltare e farsi ascoltare sono alcune tra le abilità attualmente più richieste nel mondo del lavoro.
Noi umani sappiamo cogliere il principio di non contraddizione, secondo cui è impossibile che una stessa cosa, nello stesso momento, sia e non sia (un biscotto è un biscotto) – e questo sanno farlo anche le macchine. Ma abbiamo anche la capacità di accettarne una confutazione: il biscotto che ho mangiato a colazione può diventare nello stesso momento, per il suo profumo e il suo sapore, il biscotto che mi dava di nascosto la mia tata, quando avevo sette anni.
Questa è e rimarrà una lingua solo umana, comprensibile solo tra umani. Nel lavoro (e non solo) sarà sempre più necessario sviluppare la capacità di cogliere ciò che si nasconde dietro la logica. Come? Educandoci alla sensibilità e all’empatia.
Heidegger parlava del «pensiero calcolante» come della tendenza a ridurre tutto alla calcolabilità, l’attitudine a fare i conti, tenere in conto, mettere in conto. C’è però un «pensiero meditante» che è irriducibile a qualsiasi calcolo asettico: è un pensiero che va oltre, in un territorio indistinto e indefinito, e che ci consente di accedere a significati impenetrabili dal «pensiero calcolante». Sono entrambi due modi per esercitare la ragione, ma il secondo consente di riflettere sulla realtà e sul suo senso. E quest’ultima è una capacità – anch’essa da sviluppare – che sarà sempre ricercata. Ovunque.
L’intelligenza artificiale è in grado di lavorare in ogni direzione. Eccetto quella della coscienza. È di questa che innanzitutto dobbiamo munirci per essere davvero insostituibili.