Sei consigli per difenderci dalla plastica
La plastica è presente nella nostra vita quotidiana da oltre settant’anni ed è così fondamentale che la diamo per scontata senza renderci conto della sua pervasività. Secondo
Cioccolato, caffè, pasta, legumi, miele e frutta potrebbero sparire dalle nostre tavole. La difesa della biodiversità diventa prioritaria per salvare pianeta e salute.
Per molti di noi la giornata inizia sempre con un bicchier d’acqua, un buon caffè e magari con un pezzetto di cioccolato oppure con un cucchiaino di miele sciolto nel latte e qualche frutto di stagione. Ci riesce proprio difficile immaginare che da domani il cibo potrebbe sparire per sempre dalle nostre tavole. Che l’acqua sia un bene prezioso già ne sentiamo parlare (ancora troppo poco per la verità) ma l’invito a ridimensionare il consumo d’acqua presto diventerà più incisivo. Il rischio dell’insufficienza di acqua infatti sta diventando un problema concreto per tutti e non solo per certe popolazioni. E nel nostro pianeta sulla via di estinzione ci sono alcuni alimenti che ogni giorno sono presenti sulla nostra tavola.
È il rapporto Ipbes 2019 a lanciare l’allarme: il tasso di estinzione delle specie sta accelerando con un ritmo senza precedenti nella storia dell’umanità. IPBES è un organismo intergovernativo indipendente che comprende più di 130 governi membri che dal 2012 fornisce ai responsabili politici, valutazioni scientifiche obiettive sullo stato delle conoscenze relative alla biodiversità del pianeta, agli ecosistemi e al contributo che apportano alle persone, nonché strumenti per proteggere in modo sostenibile questi beni naturali vitali. Sono sempre i cambiamenti climatici i principali colpevoli di questa veloce estinzione che riguarda anche gli alimenti perché molte sono le produzioni che soffrono questo clima ormai mutato totalmente. Da subito quindi dovremmo imparare, oltre a non sprecare il cibo, anche ad assaporarlo in modo diverso, più consapevole.
Per capire il cibo occorre andare in profondità per trasformare le nostre abitudini. Lo dice Simran Sethi – giornalista americana che si occupa prevalentemente di cibo e sostenibilità e che ha pubblicato per Slow Food editore un interessante saggio Bread Sine, chocolate, la lenta scomparsa dei cibi che più amiamo. «Dobbiamo cogliere i nessi e i fattori che governano le nostre scelte fin alle origini. Ogni cibo ha un luogo di nascita peculiare ed esprime aromi direttamente legati ai luoghi e alle persone che lo producono. Una volta imparato ad apprezzare le differenze fra cibi, cambierà la nostra esperienza di ciò che mangiamo e successivamente cambierà anche il sistema che crea il nostro cibo». L’invito rivolto a tutti è quindi quello di gustare meglio il cibo, capirne il valore anche per evitare di privarci di questo piacere.
La perdita di agrobiodiversità non solo cambierà come e cosa mangeremo ma ricadrà anche sulle effettive possibilità che alcuni avranno di mangiare. Come informa ISPRA, Istituto Superiore per la Ricerca Ambientale, esistono diversi fattori che incidono sulla perdita di biodiversità. A scala globale, il principale fattore di perdita di biodiversità animale e vegetale sono la distruzione, la degradazione e la frammentazione degli habitat, a loro volta causate sia da calamità naturali sia e soprattutto da profondi cambiamenti del territorio condotti ad opera dell’uomo.
Per esempio, la distruzione della foresta tropicale per lasciare il posto a coltivazioni di soia, canna da zucchero o palma da olio è tra le principali cause di perdita di biodiversità, sia perché la foresta tropicale ne è molto ricca, sia perché ne vengono distrutti milioni di ettari ogni anno. Molte aree selvatiche sono distrutte per prelevare piante o parti di piante per le industrie farmaceutica o cosmetica; anche nei Paesi ricchi e più industrializzati continua la perdita di biodiversità per via della distruzione di habitat naturali o semi-naturali, per costruire aeroporti, centri commerciali, parcheggi, abitazioni. A farne le spese sono la campagna, il bosco, l’area umida, la prateria.
Secondo le stime delle Nazioni Unite la popolazione mondiale passerà dai 7 miliardi registrati nel 2010 agli 11 del 2100. Entro fine secolo servirà quasi l’80% di cibo in più (ovvero quasi il doppio del fabbisogno attuale) per sfamare la popolazione mondiale. È un dato allarmante reso noto anche da uno studio condotto dall’università tedesca di Göttingen in Germania. È emerso che, se da una parte il 60% di questo aumento di fabbisogno di cibo servirà a sostenere l’aumento della popolazione mondiale, per oltre il 18% dovrà sostenere l’aumento di peso e altezza delle persone, che secondo i trend attuali sono in continua crescita.
Secondo ricercatori dell’università tedesca, il fabbisogno calorico medio giornaliero per persona salirà di ben 253 calorie tra 2010 e 2100. Un’aumentata richiesta di cibo, inoltre, potrebbe portare a un aumento dei prezzi dei generi alimentari. Ne consegue che se il Nord del mondo probabilmente sarà in grado di far fronte a questo possibile scenario, non sarà altrettanto facile per i paesi poveri, col risultato che potrebbero aumentare ulteriormente le iniquità tra Nord e Sud del Mondo.
Ma allora se la produzione del cibo aumenterà perché certi cibi sono a rischio di estinzione? Gran parte dei cambiamenti che si registrano nell’ambito del cibo e dell’agricoltura sono stati introdotti per fronteggiare la fame. A mano a mano che gli agricoltori di tutto il mondo adottano messi ad alta resa e modificati geneticamente che resistono a certe condizioni climatiche e ai pesticidi, si riducono le varietà locali fino anche a sparire. Secondo i dati Fao delle Nazioni Unite, il 25% delle calorie del mondo proviene da circa 30 specie. Questo significa che non c’è molta varietà. Circa tre quarti dell’alimentazione degli abitanti del nostro pianeta deriva da circa 12 piante e cinque specie animali. Questa riduzione dell’agrobiodiversità assume possibili echi anche rischiosi. Proviamo infatti a immaginare quando ad esempio una sola malattia o un insetto compromettono seriamente tutto ciò che coltiviamo e che finisce nei nostri piatti. Quando in Irlanda si verificò nell’Ottocento una terribile carestia. La popolazione si nutriva in larga parte di patate ma una malattia ne danneggiò le piante devastandone i raccolti.
È sbagliato trattare il nostro sistema alimentare come una cosa astratta. Una nuova frontiera di ricerca si sta consolidando: quella che analizza il depauperamento del contenuto nutrizionale degli alimenti segnalato nel rapporto SR15 dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), pubblicato nell’ottobre 2018. Il potere nutritivo dei frutti e dei vegetali risulterebbe diminuito in diverse aree del mondo, specialmente nelle fasce climatiche più vicine all’Equatore, quindi in molti Paesi poveri e in via di sviluppo. Ma il global warming impoverisce davvero le derrate alimentari? E quanto? E quali sono i cibi che spariranno? Oltre ai Paesi più a rischio, come quelli a ridosso delle fasce interessate dalla desertificazione, anche quelli mediterranei già sono penalizzati dal il global warming. Pensiamo alle coltivazioni che sopravvivono solo con condizioni climatiche particolari come la vite, il pomodoro e l’ulivo. Si tratta di colture che muovono l’economia del nostro paese producendo per esempio vini di qualità e oli d’oliva unici al mondo. Oltre il 60 % dei casi di calo di rendimento di grano, mais, riso e soia sono causati sempre dai cambiamenti climatici.
Nel bacino del Mekong, ad esempio, il fiume più lungo e importante dell’Indocina e uno dei maggiori dell’Asia all’aumento della temperatura si sommano inondazioni e innalzamento del livello del mare. La conseguenza è la salinizzazione delle terre e la loro perdita di fertilità. Nel prossimo decennio in queste zone la stima della diminuzione della produzione di riso, con una salinizzazione e una perdita di fertilità delle terre inondate. Nei prossimi dieci anni in queste zone si stima una diminuzione del 15% della produzione di riso che viene esportato in tutto il globo. Essendo una merce d’esportazione importante, il danno economico e sociale sarebbe molto grave. L’impatto del global warming sugli allevamenti non è ancora abbastanza studiato per ricavare indicazioni precise, ma è chiaro che un depauperamento delle colture da foraggio riguarderà la qualità dei mangimi, peggiorando quindi la qualità dell’alimentazione degli animali. Nel settore della pesca e acquacoltura, le ripercussioni riguardano la vita dei pesci e la loro migrazione e riproduzione con il rischio di estinzione di alcune specie come per esempio l’anguilla.
Tra gli alimenti considerati a rischio si cita spesso il cioccolato, che potrebbe diventare molto più scarso e caro nei prossimi decenni. Sempre secondo i dati dell’IPCC, proprio alcuni dei principali Paesi produttori di cacao – Indonesia, Ghana e Costa d’Avorio – non offriranno più il clima caldo-umido richiesto da questa pianta. La stessa cosa si può dire per il caffè perché l’aumento delle temperature e le piogge irregolari potrebbero compromettere le produzioni africane, sudamericane e asiatiche, flagellate da malattie e parassiti. Stessa sorte un’altra bevanda molto amata: il tè la cui coltivazione in India è a rischio per le eccessive precipitazioni monsoniche che determinano un peggioramento delle la qualità del raccolto. La produzione di pasta, legumi e arachidi, infine, potrebbe ridursi a causa della diminuzione delle rese agricole. Anche per il miele potrebbero essere rischi di estinzione a causa non solo dell’aggravarsi della crisi delle api ma anche della germogliazione anticipata delle piante. Molta frutta che arriva nelle nostre tavole è raccolta da alberi come peschi, albicocchi, ciliegi che sempre più spesso sono aggrediti dagli eventi meteorologici irregolari che non garantiscono il raffreddamento di cui le piante necessitano in inverno.