Felicità sostenibile: liberarsi dalle mode

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Felicità sostenibile: liberarsi dalle mode

Essere o avere? La conquista di una sicurezza personale che non dipende da insegne esterne a sé stessi traccia cammini di maggior realizzazione e magari reddito.

Continua il viaggio di Grammenos Mastrojeni alla ricerca di soluzioni che possono condurci con i nostri comportamenti verso una felicità sostenibile. Abbiamo esplorato il tema della sicurezza alimentare, di una dieta corretta, analizzato il nostro sistema alimentare e spiegato come la qualità del cibo coincide con vicinanza e varietà naturale. Abbiamo visto come le nostre scelte di abbigliamento incidono sulla salute del Pianeta e il meccanismo che ci spinge a consumare all’infinito. Qui analizza come la sostenibilità coincida con la realizzazione del sé libero dalle mode.

Se rinuncio all’eccesso di cibo, soprattutto alla carne di pessima qualità, non solo sto meglio e pago meno tasse, ma restituisco pure la sovranità alimentare a quel miliardo o quasi di persone che non hanno più un campo da coltivare perché lo ha comprato chi produce mangimi. Se compro solo il vestiario utile, durevole, di qualità e fatto con sapienza, spendo meno e ho case più vivibili invece di montagne di ciarpame poco usato e restituisco il mio eccesso nocivo a chi invece ne ha bisogno. Così, oltre a salvare me stesso e il Pianeta ottengo anche un altro gigantesco beneficio: costruisco la giustizia e quindi smonto tutte le ragioni per cui qualcuno potrebbe attaccarmi e farmi del male o venire a cercare a casa mia quello che gli abbiamo portato via. È quanto si cerca di dimostrare fin dal primo post ma sembra tutta teoria. Oppure è vero e davvero funziona?

Mode e alienazione

Non illudiamoci, non è facile, così come non è indolore liberarsi da fast food e merendine, soprattutto per gli adolescenti, specie se il loro gruppo fa del possesso di certi oggetti un pedaggio d’entrata. In generale, tuttavia, elementi identitari esterni a sé stessi – prima di essere Marco o Giovanni in tutta la mia individualità sono uno che ha quelle scarpe – e l’infernale ciclo che ne esige il costante rinnovamento sono forieri di ansia e soggezione, di anelante sudditanza e ricerca di conferme dal gruppo che non necessariamente giungono. Con un linguaggio un po’ più tecnico, è noto che la soggezione alle mode produce alienazione.

Ipotizziamo che di tutto questo mi sono accorto e che, pertanto e come nel campo della nutrizione, sposto nel vestiario la mia spesa dalla quantità alla qualità. Io avrò prima di tutto maggior conforto – più spazi e meno manutenzione del superfluo – e salute. Se nel caso del cibo si trattava alla base di salute corporea, con tutti gli oggetti portatori di status si tratta di una forma di salute mentale tradizionalmente riassunta nell’idea di intima libertà.

E così come una dieta più sana prelude a maggior produttività, la conquista di una sicurezza personale che non dipende da insegne esterne a sé stessi egualmente traccia cammini di maggior realizzazione e magari reddito. Questi vantaggi si pagano? Nello stesso modo in cui si sconta la disintossicazione dalle diete rigonfie di zuccheri raffinati e proteine avvelenate: si rinuncia a quei brevi momenti di autoinganno, remunerati da ombre di adrenalina e dopamina; si fa a meno di quell’attesa di chi sa quale riconoscimento che arriverà alla festa sfoggiando il mio nuovo jeans o l’ultimo smartphone, che di solito non arriva. O arriva, più o meno consapevolmente, venato dalla costatazione che non sono io che sono ammirato, ma è il mio oggetto. È un fatto certificato dalle ricerche – e credo confermato dalle nostre esperienze personali – che il vero status, quello duraturo e profondo, efficace anche nella seduzione, giunge con l’essere sé stessi invece di dipendere dalla schiavitù del gruppo. Strano Pianeta quello in cui viviamo: mi remunera se riesco ad essere libero, e dalla mia libertà fa conseguire potenti conseguenze che liberano tutti e ridanno vita all’organismo di cui siamo parte.

Nell’economia locale significa far rinascere tutto ciò che era stato ucciso da produzioni di massa e quindi rivitalizzare il tessuto socioeconomico ma anche i saperi, i ritmi, lo spessore, l’eccellenza, la legalità del territorio. E a livello globale la mia piccola individuale scelta di essere, invece di avere, significa riportare a utili dimensioni quei poli di accentramento di potere – le fabbriche delocalizzate ove si possono far lavorare minorenni 14 ore a due dollari – che distruggono l’ecosistema con prodotti effimeri, grandi trasporti, montagne di rifiuti, mentre sottraggono risorse a quei territori illudendoli di distribuire salari. Significa aprire spazi per cui non tutto il globo deve produrre gli oggetti ideati dai marchi H o Z, bensì ciascuno può arricchire nel giusto sé stesso arricchendo tutti gli altri con l’originalità del suo prodotto o territorio. Senza negare che in ragionevoli proporzioni anche H e Z hanno una loro utilità.

Come fa allora l’individuo a distinguere l’utile dal dannoso? Basta essere liberi e onesti con sé stessi: quanto si acquista per la sua finalità dichiarata – coprirmi, telefonare – e non per effimere e incontrollate illusioni di status, si tende a finanziare produzioni utili, magari da migliorare o rendere meno inquinanti, ma rispondenti a una necessità. Quando invece si acquista per prestigio, occorre essere consapevoli di ciò che realmente arreca prestigio, e del fatto che spesso non ci giunge con un segno di sottomissione all’uniformità tribale. Ciò che si acquista nella schiavitù distrugge: il prezzo che pago io lo paga il Pianeta, così come il nostro planetario giardino rifiorisce se sono libero. Sarà vero o è bella teoria?

E se la tragedia siriana fosse stata provocata anche dal mio insaziabile consumo di effimera apparenza? Se oggi l’Europa è meno unita, più fragile e utilitaristica, lo si deve anche alle divergenze nella gestione dell’afflusso di circa un milione di rifugiati siriani. Questi, oltre a sconquassare la solidarietà europea, sulla loro strada di sofferenza hanno lasciato anche altre vittime sul terreno: una relazione inquinata con la Turchia e il tramonto della speranza di integrarla nell’Unione Europea, senza contare rischi geostrategici legati a un più incerto ruolo di Ankara nella NATO. Sul teatro siriano è poi cresciuta – oltre alla sofferenza delle popolazioni – una spaccatura con la Russia, che oggi è davvero pericolosa, per un complesso di conseguenze molto gravi per noi e l’Occidente, e il pianeta in generale. E cosa c’entra la mia maglietta? E ancor più, cosa c’entra con le caratteristiche di un’economia moderna ma imperniata sulla qualità e l’autodeterminazione produttiva?

La parabola della Siria insegna

La guerra civile in Siria ha una sua serie di cause storiche e politiche. Tuttavia, non si sarebbe forse raggiunto il punto di collasso senza due concause generate dal consumo di quantità fuori misura: i cambiamenti climatici e il cotone. Le tensioni in Siria sono state esacerbate da una rapida e massiccia migrazione interna – si stima di circa un milione e ottocentomila persone – dalle campagne alle città, seguita a quattro anni di dura e anomala siccità che ha messo in ginocchio il tessuto rurale. Il riscaldamento globale da solo, tuttavia, non avrebbe portato tanta instabilità se non ci si fosse messa di mezzo la nostra inesauribile domanda di vestiario che non dura più di una stagione.

La fattoria tradizionale siriana, specchio di un patrimonio culturale mediterraneo, somigliava infatti molto a quella italiana, soprattutto alle attività agricole del meridione. Aveva dimensione familiare e una prospettiva di sussistenza: mirava a produrre ciò che serve alla famiglia, e a vendere sul mercato eventuali eccedenze. Pertanto, vi si conducevano in piccole quantità una gran varietà di attività di coltivazione, allevamento, trasformazione, e stoccaggio: dovendo fondare una relativa autonomia della famiglia, comprendeva orti, frutteti, frumenti, bestiame vario e galline; e vi si panificava e produceva formaggi, si tesseva, si preparavano le conserve per l’inverno e molto altro. Insomma, gran parte di quello di cui una famiglia ha bisogno con l’immensa varietà di un’impronta individuale su ogni prodotto. Certo, questa descrizione evoca bucoliche bellezze, ma simboleggia quel ritorno al passato che temiamo, quella paura di ritrovarci in un’economia fatta di inumane fatiche, un po’ ingessata e poco produttiva, in nome di un ambiente e di una diversità idealizzate.

Ben diversa dall’agricoltura di sussistenza è infatti l’agricoltura di reddito, quella che ancora ci pare “moderna” e la via del futuro, in cui l’agricoltore non produce proprio nulla di ciò che consuma lui e la sua famiglia, e invece coltiva o alleva ciò che è più richiesto dal mercato, possibilmente con metodi industriali, e spesso con semi-monoculture.

Tuttavia, l’agricoltura di sussistenza grazie alla sua varietà possiede una caratteristica molto apprezzata in borsa e dagli investitori, chiamata “diversificazione di portafoglio”. I grandi fondi di investimento si cautelano da improvvisi rovesci acquisendo un ventaglio diversificato di azioni e obbligazioni di modo che, se una scende, l’altra sale e nel complesso non si rischia mai di perdere tutto, perché non si è puntato su un unico cavallo. I nostri nonni, che non lavoravano a Wall Street, dicevano invece che non si mettono tutte le uova nello stesso paniere: proprio l’errore che abbiamo sottilmente indotto a compiere in Siria.

I quattro anni di siccità anomala, infatti, sarebbero stati duri ma sopportabili da un’agricoltura siriana diversificata come quella tradizionale e familiare: forse non si sarebbe ottenuto frumento, ma restavano l’orto, l’olio e le capre. Ma a quel modello la Siria aveva da poco rinunciato, per puntare quasi solo su un unico cavallo: il cotone, molto richiesto dal mercato – cioè, da me, non nascondiamoci dietro una foglia di fico – ma dipendente da abbondantissima irrigazione. Così, l’agricoltura siriana ha perso un altro valore essenziale, descritto da una parola di moda ma anch’essa così poco compresa; ha perso la resilienza. Non c’è cotone se arriva la siccità, e se si punta tutto sul cotone si perde tutto.

E così, sia pur assieme ad altre dinamiche, la mia impellente e schiava compulsione a cambiare vestito – perché è cambiato il colore di moda e non sono sufficientemente libero e sicuro di me stesso per sfuggire a questa prigione – ha fatto annegare un bambino al largo di Bodrum e ha fatto a pezzi la coesione e l’ideale europeo.

È​ Vice Segretario Generale per l’Energia e l’Azione Climatica dell’Unione del Mediterraneo. È​ un diplomatico italiano ed è stato coordinatore per l'eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo. È stato delegato alle Nazioni Unite, console in Brasile, consigliere politico a Parigi e, alla Farnesina, responsabile dei rapporti con la stampa straniera e direttore del sito internet del Ministero degli Esteri. Da una ventina d'anni concentra la sua attenzione sui cambiamenti climatici. Nel 2009 la Ottawa University in Canada gli ha affidato il primo insegnamento attivato da un'università sulla questione ambiente, risorse, conflitti e risoluzione dei conflitti. Collabora da tempo con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore.