Se la disconnessione è selettiva

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Se la disconnessione è selettiva

Addio notizie: perché le persone non vogliono più sapere e restare aggiornate. Changes nel ha parlato con Giovanni Puglisi.

Un tempo si diceva: No news, good news. Che tradotto significa: «Non avere nessuna notizia equivale ad avere una buona notizia». Oggi invece no news, cioè non avere più informazioni, è una tendenza e una scelta volontaria. Legittima, ma preoccupante per il futuro della democrazia. I dati evidenziano come la disaffezione alle news colpisca ormai 4 americani su 10. E non va meglio negli altri Paesi: secondo una ricerca di Reuters Institute, il Digital New Reports 2022, che confronta dati del 2017 con il 2022, questo tipo di evitamento selettivo, questo schivare il peggio, è raddoppiato tanto in Brasile (54%) quanto nel Regno Unito (46%) mentre In Italia si attesta intorno al 35%. E così, se pochi mesi fa pareva che le persone patissero per la FOMO (Fear of missing out), il timore di non essere aggiornati sulle ultime novità, ora l’acronimo che riassume le inclinazioni diffuse è ROMO (Relief of missing out), ovvero il sollievo di perdersi gli aggiornamenti.

I motivi di questa disconnessione selettiva, che induce a non aprire più un giornale e non guardare un notiziario alla tv, sono molteplici: in primo luogo i media parlano troppo di politica e di Covid-19, sostiene il 43% degli interpellati di tutto il mondo. Le notizie hanno un effetto negativo sull’umore, dichiara il 34% delle persone, mentre il 29% è esaurito per la quantità di notizie da cui è bersagliato, e il 17% ritiene che esso riguardi argomenti che preferirebbero evitare. «In realtà, da tempo le persone non vogliono ascoltare o leggere fatti “negativi” o che in qualche modo contraddicono le loro opinioni», chiarisce Giovanni Puglisi, docente di Scienza delle finanze all’Università di Pavia e collaboratore de La voce. info che vanta 80 mila follower su Twitter. Le persone abitano ormai in quella che viene detta echo chamber, o camera dell’eco, uno spazio di informazione in cui non è contemplato un contraddittorio e dove le uniche notizie o consentite sono quelle a favore della tesi che si sostiene. «E se pensiamo che il sistema dell’informazione è ridondante, e che una stessa cattiva notizia impatta su di noi più volte, rimbalzando da un telegiornale ai social e viceversa, è anche logico che, dopo due anni di Covid e una guerra in corso non lontano da noi, le persone non ne possano più di prospettive funeree».

Puglisi stesso ha notato una diversa attenzione dei suoi followers a seconda della pesantezza del contenuto postato: «Una battuta può raggiungere 100mila visualizzazioni, le considerazioni economiche non superano le 5mila», ci racconta. Tuttavia, distingue il docente, «servirebbero ulteriori ricerche per capire da dove nasca questa voglia di leggerezza, e se la correlazione temporale tra pandemia e volontà di disconnettersi indichi davvero una causalità. Per esempio, le persone potrebbero avere altre ragioni di tacitare le notizie: magari perché è sempre più faticoso decifrare i vari aspetti di un problema o perché lo è distinguere il vero dalle fake news». 

Un’altra ipotesi per spiegare il fenomeno del “silenzio stampa” emerge da uno studio firmato dal direttore del citato Reuter Institute, Rasmus Kleis Nielsen, e pubblicato una settimana fa: i dati i suggeriscono che le persone rifiutino i notiziari in nome del proprio benessere, ritenendoli sì ansiogeni, ma soprattutto di scarso valore pratico, perché non propongono rimedi. Quindi, conclude lo studio, anche se i cittadini sentono che dovrebbero tenersi aggiornati, evitano di farlo in nome del proprio equilibrio mentale. Per questo motivo, opinionisti come Amanda Ripley, giornalista del settimanale americano Time, hanno proposto di raccontare diversamente i problemi della società, in modo da ridurre il senso di impotenza dei lettori. Il cosiddetto giornalismo di soluzione mira a dare al pubblico un senso di speranza o a coinvolgerli in un’azione attuabile e concreta. Per Puglisi «il giornalismo di soluzione è una buona idea, che però rischia di mobilitare solo una parte di chi già si informa. Anzi, potrebbe polarizzare ulteriormente la società, mobilitando chi è già attivo dal punto di vista civico e fomentando il disinteressa di chi non lo fa. Di più, il giornalismo di soluzione potrebbe perfino irritare quanti si attendono che siano le istituzioni a risolvere i problemi e non i cittadini per conto loro, aumentando la disaffezione alla politica».

Che fare dunque? Nonostante tutto, Puglisi è ottimista: «I media troveranno nuovi modi di farsi ascoltare. Già oggi problemi complessi vengono spiegati su Instagram invece che tramite lunghi articoli, o in podcast di 5 minuti anziché in un approfondimento tv di mezz’ora. Se le persone non seguono le notizie, la colpa non è di chi non vuole sentirle o non le capisce. È di chi non si sforza di rendere le notizie più comprensibili». Chissà che la disconnessione selettiva, che per ora sta affossando il giornalismo, non finisca un giorno addirittura per renderlo migliore.

Mantovana, giornalista da oltre 15 anni in Mondadori, collabora a numerose riviste nazionali su temi di attualità e stili di vita. Ha collaborato a una monografia sul cinema di Steven Spielberg e curato la traduzione dall’inglese di un saggio sul Welfare State. ​