Consumi: il codice a barre lascia il posto al Qr
Poco più di 50 anni fa, il 26 giugno 1974, il codice a barre veniva passato per la prima volta dalla cassa del supermercato Marsh nella città di Troy, in Ohio, su una confezione
Le nuove generazioni sono attratte e allo stesso tempo stanche dei nuovi strumenti digitali. Individuare delle possibili soluzioni da mettere in atto è il primo passo per evitare un vero e proprio burnout generazionale.
«Iperconnessione». Questo è il termine che oggi viene utilizzato per descrivere quello stato di perenne collegamento al mondo digitale. Che sia per il lavoro, per interagire con il partner, o anche semplicemente per aggiornare il gruppo della propria famiglia, con l’avvento degli smartphone ci siamo abituati a dover essere sempre reperibili attraverso i social media, le app di messaggistica istantanea e le mail. Alcuni di noi si sono adattati con il tempo a questo nuovo stile di vita, altri ci sono nati e cresciuti. Tutto ciò ha portato, non solo a un nuovo modo di interagire tra individui e gruppi sociali, ma a una vera e propria identificazione.
«Passiamo in media 9 anni della nostra esistenza sul nostro smartphone»recita il risultato di un’indagine condotta da WhistleOut nel dicembre 2022 che ha coinvolto 1.000 utilizzatori di smartphone al fine di esaminare quanto tempo trascorriamo sui dispositivi mobili. Per essere più precisi, le persone dedicano più di 76.500 ore della loro esistenza a fissare lo schermo di un telefono, pari a circa 8,74 anni. Il dato è stato ottenuto considerando che l’età media in cui gli individui iniziano ad utilizzare uno smartphone è di circa 10 anni, e che l’utilizzo medio quotidiano ammonta a 3,07 ore.
Per quanto questo elemento vari a seconda delle singole generazioni, ormai lo stato di iperconnessione riguarda la maggior parte della popolazione, con una serie di conseguenze e implicazioni che influiscono sulla nostra vita. Ciò, però, non significa che le nuove generazioni stiano subendo la trasformazione digitale passivamente. Sia i millennial, che la generazione Z e la Alfa si dimostrano interessati ad affrontare, sia offline che online, il tema delle conseguenze di un utilizzo smodato di internet, creando però un cortocircuito tra quelle che sono le proprie volontà e la realtà. È proprio questa situazione paradossale il focus principale del rapporto tra le nuove generazioni e il mondo digitale: se da un lato si sta sviluppando una certa consapevolezza sulle conseguenze di questi strumenti, dall’altro non si riesce ad avere il controllo su di essi. Proprio come accade con la maggior parte delle dipendenze.
A dimostrazione di questo, ci sono centinaia di commenti su TikTok, social per eccellenza delle nuove generazioni, sotto a video in cui si parla dell’argomento: «Meno siamo collegati meglio stiamo, il problema è riuscirci»; «Ho disattivato Instagram per 5 mesi: il miglior periodo della mia vita»; «Invidio i miei genitori per essere cresciuti con il Nokia 3310».
Sebbene molti ragazzi e ragazze siano consapevoli che i social sono uno strumento per cogliere delle opportunità o incappare in dei rischi, da un punto di vista sociologico non possiamo negare che si tratti di una realtà pervasiva le cui conseguenze non sempre sono evidenti. I concetti di spazio e tempo sono stati assottigliati, tutto è estremamente veloce e fugace. Questo crea un banco di nebbia in cui non è sempre così semplice distinguere gli aspetti positivi da quelli negativi, anche per gli utenti più navigati. Ad esempio, possiamo dire che internet rappresenta un modo semplice e innovativo per entrare in contatto con gruppi sociali in linea con i propri interessi, ma la principale caratteristica di queste relazioni è la superficialità.
Se l’opportunità offerta dallo strumento non viene trasformata uscendo dalla propria zona di comfort, si rischia di rimanere intrappolati in una bolla e cadere in una sensazione di solitudine mascherata da socialità. Le nuove generazioni continuano quindi a utilizzare questi strumenti, subendone però le conseguenze negative. Ad influire maggiormente sulla loro salute mentale, è la FOMO (Fear of Missing Out) e il confronto sociale con gli altri. Sia con persone appartenenti alla propria cerchia di conoscenze, che con creator e influencer sconosciuti proposti dal feed. Questo contribuisce a creare “l’era digitale della vulnerabilità”, come è stata definita da una ricerca dell’ospedale psichiatrico McLean Hospital negli Stati Uniti: una situazione in cui, oltre all’incremento esponenziale dei comuni sintomi di ansia e depressione, si manifestano anche atteggiamenti di aggressività o offensività nei contenuti condivisi online, ulteriormente inficiati da una percezione distopica della realtà.
Tornare indietro non si può. A prescindere dal livello di consapevolezza, come riportano i dati ISTAT, l’85,8% dei giovani italiani utilizza regolarmente lo smartphone. L’unica azione utile per trovare un equilibrio in questo “odi et amo” è introdurre ore di educazione digitale nelle scuole, fin dalle elementari come sta accadendo in nord Europa. Parallelamente, diffondere la stessa consapevolezza anche online e in sedi opportune, per sensibilizzare i genitori sul tema. Esistono una serie di progetti con questo obiettivo, come il Social Warning – Movimento Etico Digitale, o il collettivo degli Unfluencer, a testimonianza del fatto che qualcosa si sta smuovendo. Riuscire a orientare i giovani a livello di consapevolezza digitale, permette loro di coglierne gli aspetti più edificanti, e di cavalcare il cambiamento invece che subirlo.