Giovani e chabot: un rapporto silenzioso ma profondo

Avatar photo
Technology


Giovani e chabot: un rapporto silenzioso ma profondo

Sempre più giovani utilizzano quotidianamente l’intelligenza artificiale non solo per aiutarsi con lo studio, ma anche per confidarsi sugli aspetti più profondi della loro vita. Qual è il nostro ruolo in questo scenario?

Immaginate vostro figlio, adolescente, seduto davanti a uno schermo. Non sta giocando, non sta cercando su Wikipedia o su Google le risposte per i compiti che gli hanno dato a scuola, non sta neanche chattando con il gruppo di amici o il partner di cui si è invaghito. Sta scrivendo a ChatGPT: “Perché mi sento così solo?”

Sembra una scena uscita dall’ultima stagione di Black Mirror, ma è molto più vicina alla realtà di quanto si possa credere. E forse, come adulti, ci sta sfuggendo di mano.
Basta farsi un giro nei meandri di TikTok per capire come, negli ultimi mesi, siano comparsi ovunque contenuti, meme e screenshot che mostrano ragazzi che si confidano con l’intelligenza artificiale come se fosse un diario o, peggio, un terapeuta.

Lo fanno per sfogo, per abitudine, per una forma di intimità che altrove non riescono a trovare. Lo fanno perché l’AI è gratis, non giudica, non interrompe, non dice “ma sì, tanto prima o poi ti passa”.
L’unico problema è che non si tratta di un essere umano. Sembra una constatazione banale, ma non lo è affatto. Non conosce il contesto, non capisce davvero come stiamo. E soprattutto: non si prende cura di noi come farebbero nostri genitori o i professionisti del settore.

ChatGPT: il diario dei segreti 2.0

Parliamoci chiaro: il problema non è che i giovani usano ChatGPT. È il perché lo usano.

Siamo sempre stati abituati a sfogarci scrivendo i nostri pensieri. Una volta lo facevamo nel nostro diario munito di lucchetto, un decennio fa su MySpace, Facebook e Netlog, mentre ora su un chatbot interattivo alimentato dall’intelligenza artificiale.
Quando un adolescente preferisce parlare con un software piuttosto che con un genitore, un insegnante o un amico, la domanda da porsi è: Dove siamo noi, nel frattempo? E cosa stiamo facendo per gestire questo cambiamento epocale?
Parliamo di dati: una recente indagine di Skuola.net ha rivelato che il 15% dei giovani tra gli 11 e i 25 anni utilizza quotidianamente chatbot basati sull’AI, come ChatGPT, Replika o Youper, per confidarsi, sfogarsi e chiedere consigli personali. Se si considerano anche coloro che li utilizzano almeno una volta a settimana, la percentuale sale al 25%. Per molti giovani, rappresenta un confidente virtuale che offre suggerimenti e spunti di riflessione, senza pregiudizi.
Parlo anche da giovane, non solo da osservatore. Quando l’AI generativa ha iniziato a diffondersi, io ero già adulto. L’ho scoperta per lavoro, per interesse, per creatività. Ma chi oggi ha 12, 14, 16 anni ci cresce dentro. Non deve imparare a usarla perché la respira, la assorbe, ci interagisce come fosse un compagno di banco. Un po’ come quello che è successo alla Generazione Z con il mondo dei social media, che in confronto all’intelligenza artificiale sembrano addirittura degli strumenti anacronistici.
Ed è proprio qui che sento tutta la responsabilità di fare da ponte. Perché riesco ancora a ricordare com’era vivere senza l’AI, e allo stesso tempo sto imparando come conviverci nel modo più sano possibile.Ma loro no. E non possiamo dare per scontato che basti saper “navigare bene” per non perdersi.

Gemini e Family Link: controllo o AI-washing?

A tal proposito, Google ha recentemente aperto l’accesso a Gemini anche agli under 13, con il consenso dei genitori tramite Family Link. Una mossa che, sulla carta, sembra risolvere molti problemi. Ma nella realtà, il controllo da solo non basta.
Perché mentre un adulto firma un’autorizzazione pensando di aver “attivato dei filtri”, un preadolescente potrebbe già aver costruito un rapporto quotidiano con l’AI fatto di risposte, incoraggiamenti, interpretazioni. Senza una guida, un contesto, o dei filtri emotivi.
Abbiamo bisogno di strumenti, formazione. Manca l’idea che, prima di dare accesso a questi strumenti con delle regole da un punto di vista tecnologico, dovremmo insegnare come relazionarsi con questi software. Il punto di partenza è non colpevolizzare chi la usa. Non demonizzarla e vietarla come fosse il male assoluto. Ma neanche far finta che non esista.
Anche perché, se usata consapevolmente, può aiutare a mettere ordine alle proprie idee. Può suddividere obiettivi che sembrano impossibili in tanti piccoli task giornaliere, motivandoci a fare questi piccoli passi.

La sfida è anche nostra: non solo delle istituzioni o delle aziende

Non serve l’allarmismo, serve l’ABC. Perché questa nuova intimità digitale tra ragazzi e AI non è né un errore, né una colpa. È un segnale che ci invita a non restare indietro, a non delegare tutto al controllo genitoriale o alle decisioni aziendali, ma a rientrare in quella relazione. Non per “spiegare ai giovani cos’è giusto o sbagliato”, ma per imparare insieme a distinguere ciò che è umano da ciò che non lo è.
Serve un’educazione nuova: che non arrivi sempre dopo l’errore, ma prima della domanda. Soprattutto considerando che l’attuale generazione Alpha, e la futura ma imminente Beta, non sapranno neanche immaginare un mondo senza l’AI. Un po’ come noi millennial fatichiamo a immaginare un mondo senza internet.
E forse, il punto è proprio questo: non è un problema dei giovani o delle aziende. È una sfida che riguarda tutti noi. Perché, se un adolescente oggi scrive a un chatbot per sentirsi ascoltato, è anche perché, troppo spesso, nemmeno gli adulti si sentono più ascoltati. Solo che noi lo chiamiamo “scrollare”, “distrarci”, “staccare un attimo”. Loro, semplicemente, aprono una chat o scaricano un’app.
Tutti abbiamo bisogno di uno spazio sicuro in cui poter dire mi sento così senza paura di essere interrotti, giudicati o ignorati. E l’intelligenza artificiale, in questo, non è la soluzione, ma nemmeno il nemico. È solo lo specchio. Sta a noi decidere cosa farci riflettere e come regolamentarlo.

Avatar photo

Creator, imprenditore e specialista in comunicazione digitale. Ogni sabato sera, su La7, nel programma “In altre parole” di Massimo Gramellini fa il resoconto social dell’attualità. Ha iniziato la sua carriera sul web dieci anni fa con una serie di progetti virali, ma tutti accomunati da un focus sulla responsabilità e il sociale. Oggi, oltre ad essere consulente creativo all’interno della sua azienda Billover 3.0, si occupa di sensibilizzare le nuove generazioni sui rischi e le potenzialità del web. Crede fortemente nell’educazione e nella consapevolezza che racchiude all’interno del neologismo “Unfluencer”.