La società dei poli opposti

Society 3.0


La società dei poli opposti

Le manifestazioni di Valencia sono l’ultimo esempio di come il contratto sociale tra persone e istituzioni si sia rotto. Perché il degrado climatico accelera la polarizzazione che è il motore della disgregazione ecosistemica.

L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri conoscitori del territorio, come i cittadini, non avevano voce in capitolo. Un mix che dopo la tragedia ha causato un’ondata di sdegno in questi ultimi che hanno dato luogo a proteste contro le autorità, non soltanto quelle preposte a gestire direttamente l’emergenza. La rabbia ha avuto come obiettivi sia il premier spagnolo Pedro Sanchez sia il capo dello Stato, re Filippo VI in vista con la moglie, la regina Letizia, per le strade della città alluvionata.

Più in generale, si sa già che il degrado naturale e climatico accelerano e sempre più causano conflitti; ma non sono i classici conflitti fra Stati, sono rotture fra gli apparati statuali e le loro popolazioni, come è stato per la rivoluzione siriana, accelerata da 4 anni di siccità, o per le primavere arabe che erano all’origine moti per il pane quando un’iperinflazione alimentare causata anche da impatti climatici ha creato 4 milioni di nuovi poveri nelle aree interessate.

Questo infernale ciclo sta accelerando esponenzialmente in tutte le sue componenti, ambientali, economiche, sociali e politiche: è ora di cambiare rotta se non vogliamo tutti, poveri e ricchi, precipitare nel caos. Precarietà e polarizzazione sociale sono esaminate nel Rapporto dell’Osservatorio Reputational & Emerging Risk del gruppo Unipol come fattori fragilizzanti. Nel rapporto si descrive che l’insicurezza ambientale e climatica accelerano la disgregazione, ma un nesso più profondo deve essere sottolineato: la polarizzazione è allo stesso tempo la vera causa della crisi ambientale e il suo più pericoloso prodotto. Non è lo sviluppo a distruggere l’ambiente – non è vero che c’è un insanabile trade-off fra crescita e progresso e il fatto che le risorse naturai siano limitate – bensì lo sviluppo ingiusto.

Come causa, la polarizzazione è il motore della disgregazione ecosistemica in almeno due modi. Per millenni abbiamo considerato la scarsità come il grande nemico da sconfiggere. Quando la tecnologia industriale ha moltiplicato le nostre capacità produttive è stato quindi solo normale che ci gettassimo a capofitto in un sistema che produce indiscriminata abbondanza, considerando il fatto che creava privilegiati ed esclusi come un prezzo tutto sommato piccolo da pagare: ricchi e poveri, potenti e sottomessi c’erano sempre stati, meglio se il divario si perpetra in uno scenario di beni moltiplicati a dismisura. Anzi, la creazione di posizioni sempre più privilegiate è stata letta da un certo liberismo come la vera e umana motivazione dello spirito d’impresa. Il trucco? Le economie di scala.

La crisi del sistema dell’abbondanza

Un sistema che moltiplica l’abbondanza grazie alle economie di scala ha però un effetto devastante quando si superano alcune soglie critiche. Esso costringe l’impresa a competere senza fine per una taglia in espansione a cui corrisponde l’abbassamento dei costi di produzione e quindi la competitività, pena l’espulsione dal mercato. Ma un’impresa costretta a cercare senza fine il costo di produzione di sopravvivenza non può permettersi cautele verso la società e il territorio che la circondano. Contemporaneamente, espandendosi, elimina la diversità – quello di scala è un prodotto per definizione standardizzato e uniforme, e crea sempre più perdenti ed esclusi, quei poveri che, al pari dei ricchi vincitori, non possono permettersi cautele sociali o ambientali semplicemente perché la precarietà di oggi non permette di preoccuparsi per il futuro.
Abbiamo così creato, per esempio, il paradossale sistema di abbondanza alimentare che produce già oggi calorie sufficienti per sfamare 12 miliardi di persone – non bisogna preoccuparsi troppo del picco demografico di 9 miliardi e mezzo di abitanti sul pianeta – ma lo fa distruggendo la fertilità sul medio termine perché chimica e industrializzazione nei campi e negli allevamenti non sempre accelerano la fecondità naturale, bensì la rimpiazzano distruggendola.

Questa è un’abbondanza che distribuisce i propri dividendi in maniera iniqua e polarizzata: si traduce in 2 miliardi di malati per eccessiva o insalubre nutrizione a fronte di 1 miliardo circa di persone che vivono nell’insicurezza alimentare ed entrambi questi poli estremi sono costretti ad accelerare la disgregazione sociale e ambientale: lo fa tanto chi è vittima di un’alimentazione tutta chimica e packaging, quanto chi deve arruolarsi con Boko Haram nel Sahel perché non ha più posto sul mercato e in ogni caso non ha più l’acqua dal cielo per irrigare il proprio campo. Del resto, una produzione distribuita e fruita in maniera giusta risolverebbe anche il problema demografico: non si fanno figli nei paesi del “benessere” perché le prospettive per il futuro ormai appartengono a troppo pochi; se ne fanno troppi nei paesi poveri perché un figlio equivale anche a manodopera di sussistenza e a un sostitutivo di una pensione di vecchiaia che non esiste.

Come si ritorna alla coesione sociale?

Dovremmo allora tornare alle carestie del passato? Certamente no: la tecnologia può accelerare la produttività di soluzioni che rispettano un dato fondamentale della natura, l’equità nella distribuzione territoriale delle risorse. In natura, chi non ha i bovini ha i caprini e, per l’energia, chi non ha il sole ha il vento. Ciascuno può sviluppare il proprio in quantità sicure e salutari, senza intasarsi la vita di oggetti inutili, e così fondare una globalizzazione giusta fondata sulla ricchezza della diversità, protetta e scambiata nella sua qualità invece che in irragionevole ma insipida quantità, così proteggendo la giustizia e l’ambiente che sono la stessa cosa. Ma se questa è la causa, l’ingiustizia, il suo opposto è il rimedio ed è urgente applicarlo perché siamo vicini a soglie di rottura catastrofiche non solo nell’ecosistema.

È​ Vice Segretario Generale per l’Energia e l’Azione Climatica dell’Unione del Mediterraneo. È​ un diplomatico italiano ed è stato coordinatore per l'eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo. È stato delegato alle Nazioni Unite, console in Brasile, consigliere politico a Parigi e, alla Farnesina, responsabile dei rapporti con la stampa straniera e direttore del sito internet del Ministero degli Esteri. Da una ventina d'anni concentra la sua attenzione sui cambiamenti climatici. Nel 2009 la Ottawa University in Canada gli ha affidato il primo insegnamento attivato da un'università sulla questione ambiente, risorse, conflitti e risoluzione dei conflitti. Collabora da tempo con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore.