Bellezza: il canone lo dettano i social
Internet, e i social in modo particolare, hanno dato a tutti noi la possibilità di mostrarci ad una platea virtualmente infinita di persone, con i potenziali vantaggi che ne conse
Il modo di produrre, consumare, distribuire la musica si è trasformato radicalmente, e persino Sanremo si è adeguato. Se l’algoritmo cerca di prevedere il vincitore l’uso del device di correzione automatica espone al rischio di appiattimento musicale
Durante il Festival di Sanremo del 1992, presentato da Pippo Baudo, un uomo irruppe improvvisamente sul palco, si impossessò del microfono e urlò in diretta: «La giuria è truccata, il Festival lo vincerà Fausto Leali!». Si trattava di Mario Appignani alias Cavallo pazzo, noto “disturbatore” televisivo dell’epoca, e non si è mai capito se fosse una gag preparata oppure no. Benché quel Sanremo alla fine non venne vinto da Leali, la scenetta viene sempre citata quando si parla di una delle caratteristiche che hanno connotato (almeno per un lungo periodo della sua storia) il Festival: la sua prevedibilità.
Siccome i tempi cambiano, ma solo fino a un certo punto, nel 2024 a fare da guastatore si è messo nientemeno che l’inevitabile algoritmo. Nella fattispecie quello elaborato da OG Music, piattaforma definita il primo marketplace per i diritti musicali in Italia, il quale ha sentenziato prima dell’inizio della rassegna di quest’anno che la sua vera e unica hit – attenzione: non la vincitrice – sarà Sinceramente di Annalisa. È stato anche stimato il guadagno che la cantante e la sua etichetta discografica otterranno dai passaggi radiofonici e soprattutto dagli ascolti in streaming: 300.000 euro, cifra peraltro neppure così stratosferica per un eventuale tormentone. Rispetto al leggendario Cavallo pazzo, possiamo supporre che l’algoritmo si sia basato su modelli predittivi un po’ più scientifici e una capacità di analisi leggermente più raffinata. Ciò che invece pare mancare del tutto a ChatGPT, il chatbot di Open AI che interpellato dal Corriere della Sera ha dato i suoi giudizi sui testi delle canzoni in gara, analizzando vari parametri come originalità, espressione emotiva, significato e così via. L’intelligenza artificiale ha promosso tutti, dando voti compresi tra il 7 e il 9: un giurato ecumenico, quindi, e certamente di bocca buona.
Al di là dei due aneddoti citati, è evidente come anche quello che per decenni è stato un immutabile rito nazional-popolare non sia immune dai cambiamenti che stanno modellando il nostro presente. Il modo di produrre, consumare, distribuire la musica si è trasformato radicalmente, e persino Sanremo si è adeguato. Il palco dell’Ariston non è mai stato per sua natura luogo di sperimentazione e di anticipazione di nuove tendenze, ma negli ultimi anni quanto meno ha cercato di inglobare quelle del momento restituendole in forma liofilizzata e accettabile dal grande pubblico. In questo senso va tenuto conto del fatto che il Festival è prima di tutto un gigantesco spettacolo televisivo, e solo in seconda battuta un concorso di canzoni.
Parlando di Intelligenza Artificiale e di algoritmo, parole ormai sulla bocca di chiunque, va detto che le canzoni festivaliere sembrano prodotte dalla prima per intercettare il funzionamento del secondo. I brani, infatti, si assomigliano tra di loro e hanno quasi tutti le stesse identiche caratteristiche: ritmi danzerecci, cassa in quattro, suoni pompati, pochissime variazioni melodiche. Insomma, prodotti confezionati con in mente da un lato le spiagge e i villaggi vacanze della prossima estate e dall’altro le playlist sulle piattaforme di streaming, oggi più strategiche dei passaggi sui network radiofonici che fino a qualche anno fa erano la destinazione naturale dei successi sanremesi. Una omogeneizzazione e un appiattimento musicale scientemente perseguito per adeguarsi al genere “urban”, ovvero il misto di pop, rap, trap e dance che domina gli ascolti odierni, soprattutto dei più giovani. Genere che prevede, tra l’altro, l’utilizzo smodato dell’Autotune, il device di correzione automatica delle sporcature vocali che rende stranamente robotico il cantato. Una pratica talmente introiettata nello stile odierno che l’Autotune sembra essere presente anche in chi non lo usa. Il che rende i testi delle canzoni spesso incomprensibili, biascicati in modo volutamente spezzato e monocorde. Forse solo l’intelligenza artificiale del Corriere è riuscita a decodificarli.
Sul Festival, al di là della qualità delle singole canzoni, spira quindi una evidente aria di standardizzazione che in qualche modo riflette l’impersonalità cibernetica della musica pop contemporanea. Ma allo stesso tempo è figlia di un’altra singolare caratteristica: i brani sono scritti da un nucleo ristretto di autori. I trenta pezzi in gara, infatti, sono firmati da tredici persone in totale. Sempre le stesse. Una sorta di factory, o di catena di montaggio, che garantisce un allineamento millimetrico ai gusti degli algoritmi – reali o mentali – che dettano legge. In attesa, e non sembrerebbe mancare molto, di far scrivere davvero le canzoni a ChatGPT.