Pedalando verso il benessere

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Pedalando verso il benessere

La mobilità che abbiamo scelto o in cui siamo ingabbiati pone sfide più ampie della semplice scelta di un mezzo migliore, più salutare e magari meno inquinante.

Continua il viaggio di Grammenos Mastrojeni alla ricerca di soluzioni che possono condurci con i nostri comportamenti verso una felicità sostenibile. Abbiamo esplorato il tema della sicurezza alimentare, di una dieta corretta, analizzato il nostro sistema alimentare e spiegato come la qualità del cibo coincide con vicinanza e varietà naturale. Abbiamo visto come le nostre scelte di abbigliamento incidono sulla salute del Pianeta, il meccanismo che ci spinge a consumare all’infinito e come la sostenibilità coincida con la realizzazione del sé libero dalle mode. Qui raccontiamo quanto le nostre scelte di trasporto possano fare la differenza.

L’equazione benessere=sostenibilità funziona in ogni aspetto delle nostre vite, comprese le nostre personali scelte di trasporto. Paragonando il grande consumatore di carne rossa a chi prende il SUV per andare a comprare il giornale a 300 metri, non è difficile visualizzare come spesso siano la stessa persona, e che uno stile di trasporto sostenibile per l’ambiente genera benessere personale e collettivo, mentre spesso ci lascia anche con più soldi in tasca. In linea di principio, quanto più mi muovo a piedi, in bicicletta, o simili soluzioni, tanto più ne guadagna la mia salute e socializzazione. E pure il mio portafoglio: notoriamente, l’automobile costa, e in molte città è divenuta una scomodità ingestibile. Da una personale e consapevole rinuncia a usarla quando mi crea più disagi che vantaggi, a catena deriverebbero innumerevoli effetti benefici per la comunità locale e globale, che alla fine mi ritornano consolidando la mia felicità individuale. Ma non è tutto.

Stiamo per esaminare anche nel campo dei trasporti alcune delle catene di prosperità che possiamo innescare con le nostre personalissime decisioni, sebbene a rigore sarebbe ormai superfluo ripercorrere fasci paralleli di effetti domino che portano dai vantaggi individuali prodotti da una mia mobilità migliore fino a un pianeta che respira meglio e con meno pericolose disparità socioeconomiche. Cambiano i dettagli, ma il meccanismo è lo stesso. Perché allora dedicarvi una riflessione a parte?

Per almeno un motivo: la sequenza di ambiti di scelta che percorriamo in questi post – nutrirsi, vestirsi, muoversi, e dopo, cosa buttare in spazzatura – non è in realtà casuale e senza criterio. Ci stiamo muovendo lungo un asse che va da un bisogno fisiologico imprescindibile e personale – nutrirsi – via via verso necessità invece sociali, create e spesso imposte dall’organizzazione collettiva, in cui la scelta individuale non può esserci senza diventare impegno nella comunità. In fondo – e pur attraverso laboriosi slalom fra prezzi alti, onnipresenti vaschette di polistirolo, e supermercati che vendono solo cibo industriale – la mia dieta la decido io, e non subisco autentiche costrizioni sociali. Anche come mi vesto lo posso decidere in autonomia, ma devo comprendere dei meccanismi collettivi e venire a patti con loro.

Già una completa autodeterminazione nelle mie scelte di mobilità è impossibile: ciò che voglio e ciò che posso spesso non coincidono, e molto dipende dalla mia vita lavorativa e da come è governato il mio territorio. Pertanto, per arrivare a muovermi nel modo migliore non basta la mia scelta personale, devo anche fare ciò che posso per mutare il mio contesto economico, amministrativo e infrastrutturale. Significa impegnarsi nella collettività – non necessariamente nel modo più ovvio, come vedremo – e ancor più questo sarà necessario per avere accesso a modalità salutari di gestione dei rifiuti, la questione che affronteremo in seguito.

La mobilità ci interroga a più ampio spettro. Se da un lato come mangio costruisce e rivela il rapporto con me stesso, come e quanto mi muovo è spesso riflesso del sistema sociale ed economico a cui appartengo per scelta, o per mancanza di alternative. Ci sentiamo prigionieri di alcuni obblighi di spostamento, anzitutto nel giornaliero calvario del pendolare medio; in altri contesti – lo svago, il turismo o semplicemente fare la spesa – abbiamo maggiori margini di scelta, ma solo in apparenza. Tutto si lega nel sistema Terra, in direzioni coerenti: lo stesso tipo di economia che fabbrica cibo e abbigliamento in grande quantità e uniformità ma scarsa qualità, avvilisce le campagne e spinge l’espansione urbana.

La mobilità che abbiamo scelto o in cui siamo ingabbiati pone quindi sfide più ampie della semplice scelta di un mezzo migliore – più salutare e magari meno inquinante – per compiere gli spostamenti di sempre. Ci pone di fronte a interrogativi fondamentali sulla necessità e i ritmi di quegli spostamenti, sul nostro ruolo nella comunità, su ciò che dobbiamo batterci per ottenere dalle nostre città, nelle nostre case e dal nostro lavoro. Non si riduce alla fuorviante opzione fra diesel o ibrido per chi può permetterselo. Significa chiedersi, ciascuno nel suo quotidiano, se è più importante avere un parcheggio o un parco dietro casa? E quindi, che città fa per me? Che tipo di vita vivo? Con quali ritmi? Che cos’è lo svago? Quanto spazio hanno i miei affetti nella mia giornata? E soprattutto, quanto voglio e quanto invece sono costretto a una vita dilaniata fra luoghi spazialmente e psicologicamente lontani?

Ma davvero possiamo scegliere il mezzo di trasporto?

Sembrano tutte sfide che ci oltrepassano, ma con la nostra personale preferenza per il vero benessere possiamo migliorare tutto. Troppo spesso non posso scegliere: che trasporti uso dipende da fattori come la distanza della casa dal lavoro – e quindi dal mio reddito – oppure dal tipo di strade: in Italia, il 50% degli spostamenti in auto all’interno delle città hanno una percorrenza inferiore a 2,5 chilometri, ovvero una distanza che sarebbe percorribile in bicicletta in meno di 10 minuti e in poco più di 20 minuti a piedi. Spesso queste brevi distanze si affrontano in macchina non per scelta, ma perché manca la sicurezza o la salubrità in strada. Permettiamoci, comunque, di sognare qualche istante, fare finta che avremmo il potere di influire sulla politica e l’economia, sul piano regolatore, per migliorare la situazione a più ampio spettro, oltre ciò che ci è direttamente concesso scegliere.

Questo sogno potremmo indirizzarlo su due sentieri diversi:

  • Tecnologico: fatto di veicoli, soluzioni organizzative, e infrastrutture migliori per gli spostamenti che comunque dobbiamo compiere, e che consideriamo un dato inalterabile senza metterlo in discussione. Questo è il sogno dei veicoli elettrici, del car-sharing, dei servizi pubblici più efficienti e simili progressi tecnici e logistici.
  • Umano: si domanda se quegli spostamenti sono davvero necessari e se la vita non sarebbe migliore entro un’economia e una città ove non sono costretto a correre fra casa, scuola, lavoro, di nuovo scuola, attività extrascolastiche, supermercato, commercialista e finalmente, dopo 14 ore, di nuovo in una casa ove scaricherò sui miei cari tutto lo stress che ho accumulato, sebbene tutto questo percorso di guerra io l’abbia compiuto in un’auto elettrica.

È verosimile che le due piste di soluzione – i due sogni – divengano rapide ed efficaci se sono percorse contemporaneamente e in amplificazione reciproca, invece che contrapposte. Ovvio, no? Eppure, metterle in alternativa e competizione è il riflesso prevalente, che proviene dalla mentalità economica tradizionale: se si vogliono auto più efficienti e meno inquinanti, se si deve finanziare una nuova rete tramviaria, occorre produrre beni, tecnologia, capacità industriale, reddito, gettito fiscale, e ci si riesce nelle aree urbane imperniate sulla mobilità obbligata, non nel Villaggio dei Puffi.

Basta solo cambiare l’urbanesimo contemporaneo?

Cambiare l’urbanesimo contemporaneo va ben oltre ed è ben altra cosa, in apparenza, rispetto all’apparizione di nuove filiere alimentari o il recupero del mercato di qualità e prossimità nel vestiario. Significa rivoltare il tessuto cittadino come un calzino, con conseguenze a catena sulle aree rurali. Difficile, ma se non lo facciamo restiamo prigionieri di un corto circuito – città sempre più invivibili per permetterci servizi e mobilità sempre più vivibili? – e inneschiamo una rincorsa viziosa. Anche puntando all’inizio sul sentiero più facile e intuitivo, ovvero miglioramenti tecnologici e logistici, scorgiamo dei limiti intrinseci che ne delineano l’insufficienza. Un mercato che produce veicoli sempre più efficienti con le risorse generate producendo sempre più veicoli può correggere alcuni impatti nocivi, ma non si avvia a una soluzione duratura e strutturale. Una svolta verso le auto elettriche, per esempio, allontana dalle nostre strade l’inquinamento chimico e acustico, ma non elimina e forse nemmeno diminuisce significativamente il primo, quello chimico, che è il più dannoso. Da qualche parte l’energia elettrica bisogna produrla e finché la generazione non sarà pulita otteniamo soltanto di modificare i luoghi in cui l’inquinamento è riversato sul territorio e la comunità. Inoltre, in generale circa il 60% dell’impatto insostenibile nel ciclo di vita di un veicolo non è causato dal suo uso, bensì dalla sua fabbricazione, che nel caso specifico dell’auto elettrica o ibrida comprende tutta la problematica mineraria, ambientale e di sopraffazione economica legata alla scarsità di litio, il metallo essenziale per le batterie. Senza contare che in un modello a rincorsa fra due valori contrapposti come quello che emergerebbe dall’economia classica, comunque si dovrebbero sottrarre sempre maggiori spazi di vita, socializzazione e natura nelle città per far posto a un crescente parco automobilistico.

Sebbene si tratti di una strategia utilissima a medio termine, alla lunga non sfugge a questo corto circuito neanche l’altra classica soluzione logistica e tecnologica: lasciare inalterata la distribuzione di spazi produttivi, abitativi e sociali, ma connetterli meglio con i trasporti pubblici o la mobilità condivisa, magari aggiungendo alcuni disincentivi all’uso dell’automobile come le zone a ingresso ristretto, o corpose tasse di circolazione. Ma occorre guardare al sistema nel suo complesso e riconoscere i prezzi da pagare che vi si innestano. Questo sistema lascia l’automobile come opzione appetibile, accessibile a molti per il prezzo di acquisto, ma di riservato uso ai più benestanti. Crea il rischio di costruire una barriera di privilegio fra chi può fruire in comodità dei luoghi più belli e centrali e chi invece può valicare il confine dei ricchi solo in metropolitana, se è fortunato.

E se invece, senza smettere di cercare soluzioni tecniche e logistiche migliori, ripensassimo la città? Siamo ancora in un bel sogno, un mondo utopico, l’avevamo premesso, uno in cui io, individualmente, posso influire su questioni come il piano regolatore, le politiche urbanistiche o simili. E se non fosse un sogno? Se veramente io, proprio io, potessi contribuire a determinare la scelta di avviarci alla città del benessere? Quella in cui non devo scegliere fra ingorgo in auto, metropolitana asfissiante, o il rischio della vita in bicicletta, perché i vari aspetti della mia vita non sono più compartimenti stagni, concorrenti, e isolati gli uni dagli altri da un percorso difficile? Usciamo dal dilemma del trasporto mangiando e vestendoci in maniera sostenibile? Tutto si tiene, tutto è coerente, nel nostro bel pianeta.

È​ Vice Segretario Generale per l’Energia e l’Azione Climatica dell’Unione del Mediterraneo. È​ un diplomatico italiano ed è stato coordinatore per l'eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo. È stato delegato alle Nazioni Unite, console in Brasile, consigliere politico a Parigi e, alla Farnesina, responsabile dei rapporti con la stampa straniera e direttore del sito internet del Ministero degli Esteri. Da una ventina d'anni concentra la sua attenzione sui cambiamenti climatici. Nel 2009 la Ottawa University in Canada gli ha affidato il primo insegnamento attivato da un'università sulla questione ambiente, risorse, conflitti e risoluzione dei conflitti. Collabora da tempo con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore.