Bellezza: il canone lo dettano i social
Internet, e i social in modo particolare, hanno dato a tutti noi la possibilità di mostrarci ad una platea virtualmente infinita di persone, con i potenziali vantaggi che ne conse
Nel 2080 secondo l’ISTAT il nostro Paese avrà 45 milioni di abitanti e di questi più di un terzo saranno anziani con conseguenze non solo economiche, ma anche politiche e sociali. Changes ne ha parlato con il demografo Gianluigi Bovini.
I sociologi lo hanno chiamato inverno demografico. Così come la stagione più fredda guarda la vegetazione maturare e seccare, così l’Italia da diversi anni assiste a un progressivo invecchiamento della popolazione, con numeri impietosi su diversi fronti della propria demografia. Il nostro è un Paese sempre più vecchio, con sempre meno figli, visto che, secondo i dati provvisori dell’ISTAT diffusi a marzo di quest’anno, dal 2008 al 2023 le nascite sono calate da quota 576.000 a 379.000, per una riduzione del 34,2%.
C’un numero di figli per donne fertili che la demografia considera l’obiettivo a cui le società dovrebbero tendere per un ricambio della popolazione ed è 2,1. In Italia questo dato secondo l’ISTAT è di 1,2 figli nel 2023, praticamente la metà del target. Si fanno pochi figli e li si fanno tardi, visto che l’età media delle donne italiane che partoriscono la prima volta è di 32 anni. Nella Giornata mondiale della popolazione, soffermarci su questi numeri è indispensabile per capire le loro conseguenze non solo economiche, ma anche politiche, sociali e culturali.
Il nostro è un Paese vecchio e per vecchi, visto che accanto alle sempre minori nascite si assiste a un progressivo aumento dell’aspettativa di vita della popolazione: 81,1 anni per gli uomini (+6 mesi sul 2022) 85,2 anni per le donne (+5 mesi rispetto al 2022). «Un dato sicuramente positivo perché significa migliori cure, migliori stili di vita ma che ci costringe a rivoluzionare totalmente l’approccio delle nostre società», sottolinea a Changes il demografo Gianluigi Bovini, che da anni collabora con ASviS e Forum disuguaglianze diversità sulle tematiche dello sviluppo sostenibile legate all’Agenda Onu 2030. Se oggi infatti gli anziani rappresentano il 24,1% della popolazione complessiva, nel 2050 saranno addirittura 4,6 milioni in più, arrivando a rappresentare il 34,5% sul totale della popolazione.
Numeri che non sono previsioni azzardate, ma probabilità superiori al 90%. «In demografia basta leggere i dati di oggi per capire il futuro», sottolinea Bovini. Il ragionamento è semplice: i neonati di oggi sono un terzo rispetto al numero record del 1964, quindi è chiaro che domani i figli saranno molti di meno rispetto al già esiguo numero attuale. «Per questo – evidenzia Gianluigi Bovini – le nostre società sono chiamate ad una sfida epocale: cambiare tutto per affrontare un contesto nuovo e in questa operazione non abbiamo modelli di riferimento, visto che mai nella storia avevamo avuto un simile scenario».
Una vera e propria rivoluzione per un Paese come il nostro che nel 2080 secondo l’ISTAT avrà 45 milioni di abitanti e di questi più di un terzo saranno anziani. «Attenzione però, non dovrà cambiare solo l’assetto previdenziale o sanitario, dovranno cambiare anche tutte le scelte che attengono i nostri comportamenti privati, pensiamo alle case che devono essere a misura di anziani oppure i vari condomini che in molti centri storici ancora presentano diverse barriere architettoniche, oppure ancora la progettazione delle reti di trasporto e degli stessi mezzi pubblici. Sono tutte tendenze che chi ha responsabilità collettive deve conoscere».
A questo punto però si insinua un discorso tanto ovvio quanto molto pericoloso. Dinnanzi ai nostri occhi si sta sviluppando un circolo vizioso che porta al cuore dei nostri sistemi democratici: i partiti e le elezioni. Alle ultime tornate europee si è registrato uno dei tassi di affluenza più bassi di sempre: il 49,69%. Metà degli elettori hanno disertato le urne e la maggior parte di questi sono giovani. Un elettorato sempre più anziano premierà soluzioni sempre meno proiettate nel futuro e sempre meno sensibile anche a quei temi della natalità così centrali in un paese in crisi demografica come il nostro. Di contro i partiti, per ragioni di marketing elettorale, saranno sempre più incentivati a “coccolare” questo elettorato anziano «inserendo nei loro programmi – ragiona Bovini – meno temi che guardano al futuro come quelli green, dell’innovazione o dell’inclusività».
Lo abbiamo visto sempre nelle ultime elezioni europee quando tra i candidati gli over 64 sono stati il doppio dei giovani. «Questo è uno dei più grandi problemi delle democrazie occidentali: oggi l’elettore medio ha 55 anni e tra due decenni questa età media arriverà a 60 anni. Come può una popolazione così anziana interpretare il futuro? È chiaro che c’è un problema di equilibrio generazionale da tener in considerazione».
A questo si aggiunge un’altra tendenza demografica tipica del nostro Paese: lo spopolamento di larghi territori del sud, dove i giovani emigrano e a restare sono solo gli anziani. Secondo una recente ricerca di Svimez, «da qui al 2080 la popolazione a Sud scenderà di 8 milioni di residenti – si legge – il Meridione avrà quindi quasi la metà degli abitanti di oggi. Negli ultimi venti anni, invece, i residenti in meno sono già stati 1,1 milioni». La maggior parte di questo esodo è compiuto dai giovani che emigrano per studio o per lavoro all’estero o al nord del Paese. Sempre secondo l’ISTAT, infatti, in 10 anni l’Italia ha perso 3 milioni di giovani e molti di questi partono dalle regioni del sud.
Aldilà degli effetti nefasti che questa tendenza comporta in termini di innovazione e di competenze per i territori, c’è anche l’ovvio aspetto della natalità: questi giovani che vanno via faranno figli altrove. Il rischio da più parti evocato sarebbe quello di diventare un Paese da 30 milioni di abitanti, di cui il 40% anziani, con larghe zone della Penisola prive delle sue forze più giovani.
Sempre secondo Gianluigi Bovini una soluzione a questa deriva ci sarebbe: «Se non si può arrestare questa fuoriuscita dobbiamo incentivare gli ingressi dall’estero. Da un lato promuovere il nostro Paese come destinazione interessante per le forze intellettuali che arrivano dall’estero, dall’altro aprire le proprie società a quei flussi migratori che stanno interessando le comunità attraverso politiche attive di integrazione». Far diventare la percezione di questi fenomeni da problema a opportunità, insomma, è una sfida tutt’altro che agevole. Ma da essa potrebbe dipendere molto del futuro della nostra Italia.