La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Dopo due anni terribili per il settore, nel 2022 è ripartita definitivamente la musica dal vivo. Il 2023 sarà l’anno in cui si tornerà auspicabilmente al regime pre-pandemia, ma far finta che il disastro non sia mai avvenuto è comunque impossibile.
Gli effetti sull’industria dei live saranno a lungo termine, un long-Covid dal quale non sarà per nulla facile uscire. I sintomi sono evidenti. Protocolli di sicurezza sui quali non c’è un consenso universale e che finiscono per essere o troppo rigidi o troppo laschi; artisti (e management) che nel comprensibile desiderio di recuperare due anni senza lavoro si lanciano in tabelle di marcia massacranti dalle quali rischiano di uscire psicologicamente a pezzi (il “burn-out” da tour è stato denunciato da molti musicisti come Lorde, Adele, Arlo Parks, persino Justin Bieber); mancanza di maestranze (tecnici da palco, fonici, ecc.) che nel periodo di fermo si sono dovute riconvertire ad altre occupazioni, e conseguente difficoltà di fissare date in certi Paesi più colpiti da questo punto di vista (ad esempio l’Italia); aumento delle spese in generale che fa incombere sull’attività dal vivo e sui tour, anche quelli che fanno il pieno di spettatori, lo spettro di un possibile disastro finanziario; la chiusura di tanti locali e club che non sono stati in grado di sopravvivere al lockdown.
Insomma, la situazione non è certa rosea. E se dalla prospettiva degli artisti si passa a quella del pubblico, c’è un ulteriore aspetto che definire problematico è un eufemismo. Perché i cari, vecchi concerti oggi sono soprattutto cari. Chiunque abbia acquistato il biglietto per un live medio-grande negli ultimi mesi se ne sarà amaramente accorto: i prezzi sono schizzati a livelli impensabili fino a qualche anno fa.
Come sempre c’è un esempio particolare che diventa paradigmatico, anche in virtù delle immancabili polemiche sui social. In questo caso, a fare da detonatore è stato il listino prezzi per il concerto di Madonna. Per andare a vedere la signora Ciccone nella tappa di Milano del Celebration Tour del prossimo novembre si spende dai 45 euro dei posti più economici (con tanto di disclaimer “visibilità limitata” specificato sui manifesti: trasparenza, senso di colpa o presa in giro?) ai 345 più prevendita del “primo settore numerato”.
Esempio eclatante ma certo non l’unico. I Depeche Mode, per farne un altro, si concederanno a noi mortali per un prezzo che oscilla tra i 45 e i 245 euro. Gli immarcescibili Who (cioè Pete Townshend e Roger Daltrey, i due rimasti) si esibiranno a Firenze a luglio con un’orchestra, e qui la forbice va dai 75 euro ai quasi 900 del surreale “pacchetto VIP” che comprende imperdibili plus quali pass laminato con cordino, open bar, cancello di entrata separato, t -shirt e (tenetevi forte) la possibilità di fare una foto dal palco prima del concerto. Lasciando da parte considerazioni che sorgono spontanee – ad esempio che per una cifra del genere come minimo dovrebbe essere concesso suonare la batteria su My Generation – il proliferare di questi pack che vendono una presunta “esperienza esclusiva” sono sintomatici sia di un cambiamento profondo nell’attitudine del pubblico – che in gran parte sceglie di vedere un solo grande concerto all’anno, disertando quelli piccoli e underground, più per consumare un rito e poter testimoniare di esserci stato che per reale passione musicale – che della necessità di monetizzare in qualunque modo da parte degli artisti. Che nel caso di leggende come Madonna o Bruce Springsteen (i cui concerti negli Stati Uniti sono arrivati a costare fino a qualche decina di migliaia di dollari per i posti più prestigiosi) fanno pagare non tanto la loro performance sul palco quanto l’ostensione dell’icona pop. Si va a vederli un po’ come si decide di andare a cena in un ristorante iper-stellato o a dormire in un albergo di lusso, insomma.
In realtà, i motivi per i quali i prezzi dei concerti si sono alzati, secondo una ricerca del Wall Street Journal, del 50-60% negli ultimi dieci anni sono diversi. A parte il comprensibile bisogno di andare in pareggio da parte degli artisti a fronte di spese sempre più elevate, la ragione principale è il sostanziale regime di monopolio delle agenzie che fungono da intermediari nella vendita dei biglietti. Negli Stati Uniti colossi come Ticketmaster e Live Nation, che dal 2010 si sono fuse assieme, controllano l’80% del mercato, potendo quindi determinare i prezzi a proprio piacimento e con ricarichi folli senza avere in pratica concorrenza. I musicisti possono farci poco: scegliere di suonare solo in circuiti estranei al monopolio Ticketmaster/Live Nation, come fecero i Pearl Jam negli anni ‘90 prima di dover scendere a patti con la dura realtà, significa non suonare da nessuna parte.
Ma a rendere ancora più complicata la vita di chi vorrebbe semplicemente andare a vedersi un concerto senza accendere un mutuo è arrivata anche la piaga del dynamic pricing, un sistema che permette, in base a dati raccolti in tempo reale relativamente alla domanda, di variare il prezzo del biglietto nel tempo, spesso portandolo a cifre insensate. Il che comporta, inevitabilmente, una corsa al biglietto fatta di nottate passate davanti al computer che spesso alla fine mostra la malinconica scritta “esaurito”. Non esattamente quello che si dice una esperienza user-friendly. Ma c’è di più. Un sistema del genere non solo innesca, ma favorisce forse persino intenzionalmente il fenomeno del bagarinaggio. Che oggi si chiama più pudicamente “secondary ticketing” e avviene su piattaforme online come StubHub, ma continua a svolgersi secondo gli stessi meccanismi di sempre. Più il prezzo dei biglietti aumenta, più i fan cercheranno di accaparrarsi subito i posti più economici (quelli “a visibilità limitata”), con la conseguenza che andranno esauriti dieci minuti dopo l’inizio della vendita per ricomparire magicamente sui siti di secondary ticketing a prezzi quadruplicati. Tanto valeva comprare subito il biglietto VIP con l’open bar e il pass laminato.
Nello spezzare questa spirale perversa il ruolo degli artisti, che in teoria potrebbero imporre prezzi calmierati, è determinante. Ma è ovvio che in un regime di libero mercato dovrebbe essere un sano equilibrio tra domanda e offerta a risolvere la questione. E se dal lato della seconda si può operare in modo più equo senza gabellare il pubblico (ad esempio creando un mercato secondario riservato esclusivamente ai fan, soluzione che alcune start up stanno già proponendo), da quello della seconda si può forse optare per un consumo più consapevole e curioso. Preferendo magari all’adorazione in uno stadio di idoli pop invecchiati non sempre benissimo, per la modica cifra di svariate centinaia di euro, la scoperta di qualche giovane band che suona in un locale in periferia al prezzo di un paio di birre.