Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
Perché per riorientare il sistema economico-produttivo rapidamente serve anche l’impegno delle piccole e medie imprese.
A dare l’esempio sul fronte della sostenibilità devono essere le grandi imprese e infatti magari non tutte ma molte sembra lo stiano facendo seriamente. Anche perché sono più esposte rispetto le Pmi sui mercati internazionali, sono spinte a farlo dalla pressione di investitori e consumatori, sono in genere le prime destinatarie – specie le quotate in Borsa – di normative sempre più stringenti, hanno le risorse per farlo. Ma è facile intuire come, sia in Italia, sia in molti altri Paesi coi quali solitamente ci confrontiamo, non ci sia una sola speranza di riorientare il sistema economico-produttivo rapidamente, massicciamente e organicamente nel senso della sostenibilità, se a bordo di questa sfida non si imbarcano e si fanno viaggiare spedite anche le Pmi. Detto altrimenti, affinché il sistema nel suo insieme riesca a vincere l’inerzia del business-as-usual e ad entrare definitivamente nell’era del business-as-urgent, da una parte le Pmi devono maturare la convinzione profonda che la sostenibilità sia la scelta strategica vincente da fare; dall’altra, devono essere messe nelle condizioni di farla atterrare nei processi e nell’operatività quotidiana, dato che la sostenibilità storicamente è stata riferita prima di tutto alle grandi imprese. Agli inizi, del resto, si parlava di Csr, dove la “c” sta appunto per corporate. È dunque una sorta di “caccia alle Pmi” quella a cui si assiste soprattutto da qualche tempo nell’ambito della sostenibilità. Con tutta una serie di iniziative, programmi, studi, strumenti.
Molti sono convinti ad esempio che uno dei percorsi più efficaci da battere per far entrare la sostenibilità nel modus operandi delle Pmi sia quello della reportistica di sostenibilità. Far sì cioè che un numero sempre maggiore di Pmi si misuri con bilanci di sostenibilità o simili, con tutto ciò che tale scelta comporta in un’azienda. Perché, si sa, misurare e valutare – per poi comunicare – le proprie performance di sostenibilità, è il primo passo per gestirle e provare a migliorarle. Si spiega probabilmente così la grande attenzione che c’è in Europa per la revisione della direttiva NFRD (Non-Financial Reporting Directive) che anni fa ha introdotto l’obbligo di rendicontazione di sostenibilità per le imprese più grandi. La proposta all’esame degli organi legislativi comunitari prevede infatti, con la direttiva CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive), l’allargamento della platea delle imprese interessate alle Pmi quotate, con standard magari semplificati. Il che significherebbe, secondo le stime, coinvolgere quasi 50mila imprese in Europa.
Per restare ancora in ambito comunitario, non è un caso che alle Pmi sia dedicata una delle aree prioritarie d’azione delineate dalla Commissione europea nella sua rinnovata strategia sulla finanza sostenibile. O che vi siano in Europa importanti progetti, particolarmente innovativi, che chiamano in causa direttamente le Pmi. Come l’ambizioso TranspArEEnS (Mainstreaming Transparent Assessment Of Energy Efficiency In Environmental Social Governance Ratings), che vede coinvolta l’Università Ca’ Foscari di Venezia in qualità di coordinatrice: mira alla definizione di un rating EE-Esg, cioè sull’efficienza energetica oltre che sui fattori Esg (ambientali, sociali e di governance), e rientra in un’iniziativa globale sui mutui “verdi” per l’efficienza energetica.
Ci si è accorti, insomma, che lasciare fuori le Pmi dal treno della sostenibilità è un costo e un rischio che il sistema non può assolutamente permettersi. E una delle conseguenze è che il faro dell’analisi con criteri Esg, anch’essi nati e sviluppatisi primariamente in riferimento alle grandi società quotate, comincia a posarsi con sempre più frequenza sulle Pmi. Che stanno diventando una sorta di nuova frontiera per lo sviluppo di metodologie di analisi e valutazione delle performance socio-ambientali d’impresa.
Un esempio significativo in questo senso è l’Osservatorio Esg da tempo avviato da Il Sole 24 Ore, un’indagine sulla sostenibilità fra le Pmi quotate a Piazza Affari che mira anche a dare visibilità a quelle più impegnate su questo fronte, magari con l’auspicio che possano fare da traino alle altre. Si pensi anche a “Esg Connect“, l’evento di fine settembre promosso da Cerved tutto incentrato sulla declinazione della sostenibilità a misura di Pmi, con focus su temi quali ad esempio il rapporto tra sostenibilità e rischio d’impresa, l’impatto della transizione ecologica sulle Pmi, la sostenibilità della filiera.
Che la finanza sostenibile sia sempre più interessata all’universo Pmi è risultato evidente nella Settimana SRI 2020 promossa dal Forum per la Finanza Sostenibile, principale appuntamento di settore in Italia (l’edizione 2021 sarà dall’11 al 25 novembre). Al cuore della giornata inaugurale l’anno scorso c’era infatti il rapporto tra Pmi e sostenibilità. E dalla ricerca presentata nell’occasione emergeva ad esempio che una larghissima maggioranza delle Pmi intervistate già inquadrava la sostenibilità come una priorità strategica per il futuro. Arrivando addirittura ad auspicare che fattori di sostenibilità sociale e ambientale siano integrati nelle valutazioni operate dalle banche sul merito di credito delle imprese.
Le conferme dell’attenzione crescente di investitori sostenibili e responsabili per le Pmi si susseguono. Moody’s ha lanciato di recente il suo Esg Score Predictor destinato a Pmi quotate e non, basato sull’assunto che le Pmi sono il pilastro di ogni economia ma a loro riguardo esiste un gap di dati Esg, di cui analisti e investitori sono affamati, che va colmato. CDP, organizzazione di riferimento a livello mondiale sugli standard per la reportistica legata all’impatto ambientale delle imprese, ha messo a disposizione delle Pmi un hub (SME Climate Hub) per aiutarle a definire strategie, impegni e target nell’ottica della riduzione delle emissioni di CO2.
C’è poi il fatto che sono ormai numerose le indagini che riconoscono il ruolo cruciale svolto dalle Pmi in ambiti di sostenibilità di estrema rilevanza. Secondo uno studio recente realizzato da Altis-Cattolica con Mani Tese sul settore moda-abbigliamento, pur non mettendo in discussione il maggior potere che i grandi brand hanno di influenzare le filiere su questi temi, le Pmi si rivelano un vero e proprio “motore” di sostenibilità. In virtù ad esempio della loro cultura imprenditoriale e della forza dei legami che coltivano con il territorio. A livello internazionale, è stato uno studio della Access to Medicine Foundation a rilevare come nella lotta contro i superbatteri proprio i piccoli produttori di farmaci, nonostante si trovino spesso a combattere con la scarsità di risorse finanziarie, siano più che mai decisivi nella ricerca e sviluppo di antibiotici innovativi.
E poi c’è la lotta all’emergenza più grave e urgente di tutte, vale a dire la crisi climatica. In Italia gli obiettivi climatici al 2030 non potranno essere raggiunti senza il coinvolgimento massivo delle Pmi, che generano il 60% delle emissioni di CO2 del manifatturiero e nelle costruzioni: lo ha detto uno studio di Fondazione sviluppo sostenibile e CNA che ha evidenziato come serva mettere a punto, per sostenerle davvero nel loro percorso di decarbonizzazione, strumenti ad hoc per le Pmi. Il titolo dello studio è quanto mai esplicito: “Non senza le Pmi“.