L’insostenibile peso dei data center

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L’insostenibile peso dei data center

Nell’industria digitale non si vede il tubo di scappamento che emette il fumo. Ma inquinano. Cosa stiamo facendo per risolvere il problema?

I droni che sorvolano acciaierie o stabilimenti petrolchimici estesi per chilometri, il fumo che esce dalle ciminiere, le isole di plastica galleggianti negli oceani: ecco immagini di impatto che sollevano moti popolari a difesa dell’ambiente. Poco si dice e si mostra, invece, della nuova industria dominante, il digitale, che, come ben sottolinea Ale Agostini, fondatore di AvantGrade.com e ideatore del progetto Karma Metrix per monitorare le emissioni dei giganti del web, «sembra un miracolo piovuto dal cielo. Nell’industria digitale non si vede il tubo di scappamento che emette il fumo, si pensa che le cose siano fatte a costo zero, che il cloud sia realmente una nuvola impalpabile» .

Ma non è così. Peraltro, anche l’industria digitale ha i suoi ecomostri, i data center estesi per milioni di chilometri quadrati, a volte in zone disabitate, ma sempre più spesso attorno alle grandi città. Nessuno però si prende mai la briga di mostrarli. Anzi, quasi nessuno di noi li ha mai visti.  

Tecnologie energivore

E sono proprio i data center di colossi come Amazon, Google, Microsoft, Apple o Facebook che richiedono moltissima energia sia per funzionare, sia per raffreddarsi. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), alla fine del 2019 i data center erano responsabili di circa l’1% del consumo globale di energia nel mondo. Un dato che però non considera il mining di criptovalute, altro comparto che si appoggia enormemente su server e hardware per l’archiviazione dei dati. Entro il 2030 si stima che i data center assorbiranno l’8% dei consumi elettrici mondiali. Ma la crescita potrebbe essere ancor più esponenziale: ad esempio, secondo uno studio di Eirgrid, la compagnia pubblica di elettricità irlandese, nel 2028 i centri di elaborazione dati assorbiranno circa il 30% della domanda energetica del paese. Mentre un rapporto del Danish council on climate change sostiene che i data center faranno aumentare il consumo totale di energia della Danimarca del 17% nei prossimi 10 anni.

Numeri pazzeschi su cui però, obiettivamente, non c’è dibattito. Raccogliendo e incrociando i dati di Cloudscene e di ReportLinker, al momento ci sono circa 2 mila data center nei 27 paesi dell’Ue, di cui 486 in Germania (52 a Monaco, 49 ad Amburgo), 458 nel Regno Unito (196 a Londra), 280 nei Paesi Bassi (116 ad Amsterdam), 263 in Francia (113 a Parigi), e 130 in Italia (oltre 50 data center solo a Milano e dintorni). L’area Stati Uniti-Canada ne ospita oltre 3 mila, mentre in Cina, secondo Statista, i data center sarebbero 447 (ma i numeri cinesi sono opachi per definizione). E che i data center siano diventati centrali nell’industria dell’Information Technology lo spiega bene anche questo trend: la spesa per i data center era pari al 25% delle spese totali del comparto nel 2014, è salita al 50% nel 2020, e sarà del 70% nel 2024. 

Ovviamente il numero di data center dice qualcosa, ma ciò che conta è la loro dimensione. Ad esempio, nell’area di Langfang, in Cina, c’è il data center più grande al mondo, di 1,9 milioni di metri quadrati, ovvero pari alla estensione dell’intero Principato di Monaco. E presto Facebook (Meta), per sviluppare il metaverso, creerà due nuovi data center: uno alle porte di Madrid, in Spagna, su un’area di 1,92 milioni di metri quadrati, per un investimento di un miliardo di dollari; un altro a Kuna (Idaho, Stati Uniti) su nove ettari, pronto nel 2025, per un investimento di 800 milioni di dollari.

Giusto per dare una idea, in base ai dati raccolti da Karma Metrix, c’è Microsoft che ha 38 data center sparsi nel mondo, e poi Amazon 24, Google 23, Facebook 19, Apple 9. Ma è Google il colosso con più web server al mondo, concentrati in pochi enormi data center.

Dove vengono costruiti i data center? Non ce ne sono a livello tropicale, poiché queste strutture devono lavorare a temperature relativamente basse. Ecco perché, invece, ve ne sono molti sul Baltico, sul Mare del Nord, dove il clima è già fresco di suo e in cui le acque di raffreddamento sono facilmente reperibili. «Però i data center non sono stati tutti costruiti al Circolo polare artico – commenta Ale Agostini – poiché bisogna anche tenere conto dei costi di trasporto del dato: più strada deve percorrere il dato, più aumenta il consumo di energia».  

Data center green

Che fare, quindi, per ridurre il silenzioso ma notevolissimo impatto ambientale di questa rivoluzione digitale?Secondo l’osservatorio di Karma Metrix, «le grandi società statunitensi hanno avviato un percorso verso energie totalmente rinnovabili per alimentare i data center. E indicano pure dove sono i loro impianti di energia solare o eolica. Google, poi, ad esempio, tende a non usare acque fresche per raffreddare gli impianti, ma lavora col riciclo di acque industriali, e quindi non ha un impatto sul consumo idrico». 

Tuttavia, bisogna anche spingere su un uso più efficiente del web sia da parte delle aziende, sia da parte dei cittadini: meno c’è bisogno di cloud illimitato, meno servono nuovi data center sempre più grandi.

Karma Metrix, su questo fronte, ha messo a punto un decalogo pratico e molto utile: cancella le foto che non usi; visita siti poco inquinanti (sono già premiati da Google in fase di indicizzazione); usa piattaforme di scambio per i file pesanti; streaming sì, ma con moderazione; cancella le email superflue; elimina le app che non usi; spingi per web meeting senza video; riduci l’uso e la condivisione di video, vocali e foto; fai un solo backup di foto, video o documenti, e non tanti backup che vanno a intasare il cloud; usa il dark mode di Google, ovvero lo sfondo nero che consuma meno. 

«Secondo me è proprio necessario sensibilizzare sull’uso responsabile del web – conclude Ale Agostini – verso un approccio più light, siti leggeri, non sfruttare all’eccesso il cloud con file duplicati, con ridondanza di dati. Gli operatori, tipo Microsoft, danno tanto spazio sul cloud, ma poi le aziende stesse duplicano all’eccesso, mettono nel cloud un sacco di dati che non servono. Il cloud, naturalmente, offre grandi vantaggi ma bisogna sempre considerare il costo ambientale della ridondanza. E anche a noi singoli cittadini non servono 300 mila foto in backup che non guardiamo mai. Interessante, ad esempio, la scelta di Google: prima dava un drive senza limiti di spazio. Ora, invece, ha fissato uno spazio massimo, poiché si sono accorti che con lo spazio illimitato c’erano crescenti costi economici e sociali. Insomma, pure gli utenti del mondo digitale devono rendersi conto che non esiste l’impatto zero, neanche sul web».

Milanese, laureato in Economia e commercio alla Università Cattolica del Sacro Cuore, è giornalista del quotidiano ItaliaOggi, co-fondatore di MarketingOggi, esperto di storia ed economia dei media, docente di comunicazione ed economia dei media per oltre 10 anni allo IED di Milano.