Il dollaro scricchiola: perché l’impero americano non è eterno
Il bello de L’impero del dollaro è che si legge come un podcast brillante e si pensa come un manuale di strategia: Kenneth Rogoff accompagna il lettore dentro sette decenni di f
La sociologa finlandese Eeva Luhtakallio, autrice di Youth Participation and Democracy, indaga come i giovani costruiscono nuove forme di impegno politico e sociale in un mondo segnato da polarizzazione, disillusione e desiderio di autonomia.
Come nasce la società e come sviluppare la democrazia in futuro? È questa la domanda al cuore del libro Youth Participation and Democracy (Bristol University Press) di Eeva Luhtakallio, sociologa che in Finlandia dirige il Centro di sociologia della democrazia e un progetto di ricerca su Giovani cittadini nell’era della polarizzazione, che combina big data e metodi etnografici approfonditi per analizzare l’impegno politico dei giovani e i futuri scenari della cultura politica. Con lei abbiamo parlato di come coinvolgere i giovani nell’impegno sociale e politico.
Ci illustra da cosa è nata la ricerca che lei ha riassunto nel suo libro?
Dall’esigenza di capire che tipo di azioni intraprendono e quali pratiche politiche seguono i giovani che partecipano alla società. Abbiamo notato che molti studi si concentravano sui gruppi di destra estrema, o sulla mobilitazione online, ma che non erano collegati tra di loro e dunque si creavano dei buchi nella comprensione di come si educa alla democrazia e come si preparano i giovani a essere cittadini. Noi volevano unire queste ricerche con focus separati creando strumenti generali, che superassero gli elementi empirici. Quando abbiano iniziato in Finlandia abbiamo assistito all’ascesa della destra estrema e alcuni studiosi non ritenevano che per chi l’aveva sostenuta si potesse parlare di partecipazione civica, proprio perché si trattava di un’ideologia estrema e per noi era frustrante constatare come non essere d’accordo con il tuo oggetto di studio implicasse di non studiarlo. In concreto, abbiano preso in esame la fascia di età 13-25, anche se non abbiamo certezze sull’ età di chi ha partecipato a gruppi online, in un periodo dal 2016 al 2021. Gi ultimi studi sonostati quelli sui sobborghi marginalizzati e sul movimento Extinction Rebellion, che abbiamo scelto proprio perché speravamo contraddicesse quello che le ricerche mostravano.
In effetti la sua ricerca identifica l’individualismo come il principale principio guida, per l’azione dei giovani, perfino quando si tratta di lottare per il clima. In che modo gli interessi personali cambiano il modo in cui i giovani percepiscono e si impegnano nell’azione collettiva e nella politica tradizionale?
Premetto che il mio studio si concentra sulla cultura politica finlandese. Tuttavia, sappiamo che oggi l’individualismo è iper-esteso ed è un fenomeno universale. Abbiamo aggiunto appunto il movimento ambientalista ai soggetti da noi esaminati perché è emerso in precedenza che i giovani non mostravano fiducia nei movimenti collettivi e abbiamo rivolto l’attenzione a una realtà come Extinction rebellion perché eravamo sicuri che lì sarebbe stato il contrario. Invece abbiano riscontrato che l’individualismo è cristallizzato anche tra gli attivisti, che sono mossi da un senso di urgenza, ma che usano la forza di una collettività come uno strumento per poter salvare il mondo in prima persona, non come una realtà più estesa di cui fanno parte. Negli anni 90 le ricerche del sociologo americano Paul Lichterman avevano evidenziato come l’individualismo a volte rafforzi l’impegno pubblico e politico e noi siamo giunti alla stessa conclusione: i giovani sono spinti a partecipare a un movimento o gruppo per perseguire un fine individuale. Lo abbiano riscontrato anche tra i giovani volontari di un festival urbano a Helsinki: coloro che lo hanno organizzato non erano mossi dal desiderio di immaginare una diversa socialità nel quartiere o una differente modalità di uso dello spazio pubblico, ma perché quell’attività aveva senso nel loro cv e poteva aiutarli a trovare un lavoro. E così il giorno dopo l’evento non ne è rimasto nulla.
Lei usa il termine doing society, “fare società” al posto di espressioni tipiche come “attivismo politico” o “partecipazione civica”. Perché questo nuovo termine è necessario?
Il nostro approccio si basa sul pragmatismo e sullo studio delle azioni più che di principi o istituzioni. Noi diciamo che le cose che le persone fanno sono la chiave per capire come si costruisce la società. Questo spiega il termine fare, doing. Quanto al termine society, il suo uso deriva dall’ osservazione sul campo che i giovani erano molto riluttanti a dire che facevano politica perché questa parola è molto stigmatizzata in Finlandia: sottintende, corruzione, accordi sottobanco o l’appartenenza a un’élite, e le persone non vogliono averci a che fare. Di conseguenza abbiamo preferito società, parola che deriva anche dalla scuola francese della sociologia pragmatica di Luc Boltanski e dalla sua idea che la democrazia dipenda da come le persone, anche in modo conflittuale, creano una comunità e uno spazio comune in cui vivere.
Le vostre ricerche indicano che, quando i giovani partecipano a strutture ufficiali come i consigli comunali dei giovani o il bilancio partecipativo, anziché essere più coinvolti, sono frustrati perché sperimentano una “simulazione di democrazia”, che non attribuisce un reale potere nel processo decisionale o nella definizione dell’agenda. Quali misure si possono adottare per farli sentire più efficaci?
Dando loro vero potere. Prendiamo il caso del bilancio partecipativo di un comune: può succedere che i giovani votino un progetto e poi l’istituzione ci metta anni a farlo. Il che significa che, se si tratta di una pista da skating, la votano quando sono ragazzi e la vedono realizzata quando sono adulti Promuovere questa forma di partecipazione equivale a disilludere i giovani. Invece dovremmo essere molto trasparenti sui limiti di quello che promettiamo, a costo di on avere giovani che partecipano o di accontentarci di generare un impatto piccolo, ma più veloce. Per i consigli dei giovani è la stessa cosa: alla fine insegnano ai giovani come fare politica e campagna elettorale, ma non attribuiscono loro nessun potere. Di conseguenza, molti se ne vanno o imparano le basi della politica e poi si candidano per cariche reali. Più in generale, comunque, la ricerca sulla partecipazione dei giovani ci insegna cosa non funziona, non cosa funziona: ad almeno sappiamo che ciò che va bene è far partire l’iniziativa dai ragazzi, non imporla dall’alto. Noi vediamo tanti giovani che promuovono interessanti iniziative che vengono messi da parte perché le loro idee non si adattano a un format che l’amministrazione pubblica capisce. Servirebbero più apertura verso le iniziative della gente e anche più tolleranza verso chi per frustrazione, diserta l’impegno civico e la politica.
A proposito di persone che rifiutano la politica, lei scrive che, per i giovani emarginati l’apatia è più una strategia di resistenza scelta attivamente che un segno di debolezza. Cosa possiamo fare per convincere questi ragazzi a interessarsi di nuovo alla democrazia?
Possiamo ascoltarli e aiutarli a fare ciò che per loro è importante anziché cercare di educarli o zittire chi non sa gestire le sue frustrazioni. Io ho condotto uno studio sociologico su un quartiere dove si registrava la minor partecipazione al voto del paese. Sono andata là pensando che dovevano convincersi di votare perché era nel loro interesse più che in quello di chiunque altro. Dopo 4 anni, ho capito perché non votano e ho pensato che, se fossi stata in loro, avrei fatto lo stesso. L’astensione era il modo di non dare legittimazione a un sistema che li aveva fatti sentire rifiutati. Questo per dire che c’è molto da imparare sulla presunta passività di persone ai margini della società ed è una facile accusarli invece di mettere sotto la lente le disuguaglianze di una società che si presenta come egualitaria, mentre lascia fuori tanti.
Ha fiducia nei giovani?
Non so se voglio dire che spero in un’azione collettiva; magari ci sarà, ma anche in società iper-individualizzata con l’impegno si ottengono cose buone. Pensiamo al citato movimento ecologista. Per la Finlandia il pericolo maggiore che vedo è la polarizzazione sociali: alcuni sono ricchi e se la cavano bene; altri molto meno, e questa divisione è rischiosa perché crea una situazione in cui le persone non si capiscono più e, come negli Usa, la politica può aumentare, anziché diminuire, il problema.
Ci illustra da cosa è nata la ricerca che lei ha riassunto nel suo libro?
Dall’esigenza di capire che tipo di azioni intraprendono e quali pratiche politiche seguono i giovani che partecipano alla società. Abbiamo notato che molti studi si concentravano sui gruppi di destra estrema, o sulla mobilitazione online, ma che non erano collegati tra di loro e dunque si creavano dei buchi nella comprensione di come si educa alla democrazia e come si preparano i giovani a essere cittadini. Noi volevano unire queste ricerche con focus separati creando strumenti generali, che superassero gli elementi empirici. Quando abbiano iniziato in Finlandia abbiamo assistito all’ascesa della destra estrema e alcuni studiosi non ritenevano che per chi l’aveva sostenuta si potesse parlare di partecipazione civica, proprio perché si trattava di un’ideologia estrema e per noi era frustrante constatare come non essere d’accordo con il tuo oggetto di studio implicasse di non studiarlo. In concreto, abbiano preso in esame la fascia di età 13-25, anche se non abbiamo certezze sull’ età di chi ha partecipato a gruppi online, in un periodo dal 2016 al 2021. Gi ultimi studi sonostati quelli sui sobborghi marginalizzati e sul movimento Extinction Rebellion, che abbiamo scelto proprio perché speravamo contraddicesse quello che le ricerche mostravano.
In effetti la sua ricerca identifica l’individualismo come il principale principio guida, per l’azione dei giovani, perfino quando si tratta di lottare per il clima. In che modo gli interessi personali cambiano il modo in cui i giovani percepiscono e si impegnano nell’azione collettiva e nella politica tradizionale?
Premetto che il mio studio si concentra sulla cultura politica finlandese. Tuttavia, sappiamo che oggi l’individualismo è iper-esteso ed è un fenomeno universale. Abbiamo aggiunto appunto il movimento ambientalista ai soggetti da noi esaminati perché è emerso in precedenza che i giovani non mostravano fiducia nei movimenti collettivi e abbiamo rivolto l’attenzione a una realtà come Extinction rebellion perché eravamo sicuri che lì sarebbe stato il contrario. Invece abbiano riscontrato che l’individualismo è cristallizzato anche tra gli attivisti, che sono mossi da un senso di urgenza, ma che usano la forza di una collettività come uno strumento per poter salvare il mondo in prima persona, non come una realtà più estesa di cui fanno parte. Negli anni 90 le ricerche del sociologo americano Paul Lichterman avevano evidenziato come l’individualismo a volte rafforzi l’impegno pubblico e politico e noi siamo giunti alla stessa conclusione: i giovani sono spinti a partecipare a un movimento o gruppo per perseguire un fine individuale. Lo abbiano riscontrato anche tra i giovani volontari di un festival urbano a Helsinki: coloro che lo hanno organizzato non erano mossi dal desiderio di immaginare una diversa socialità nel quartiere o una differente modalità di uso dello spazio pubblico, ma perché quell’attività aveva senso nel loro cv e poteva aiutarli a trovare un lavoro. E così il giorno dopo l’evento non ne è rimasto nulla.
Lei usa il termine doing society, “fare società” al posto di espressioni tipiche come “attivismo politico” o “partecipazione civica”. Perché questo nuovo termine è necessario?
Il nostro approccio si basa sul pragmatismo e sullo studio delle azioni più che di principi o istituzioni. Noi diciamo che le cose che le persone fanno sono la chiave per capire come si costruisce la società. Questo spiega il termine fare, doing. Quanto al termine society, il suo uso deriva dall’ osservazione sul campo che i giovani erano molto riluttanti a dire che facevano politica perché questa parola è molto stigmatizzata in Finlandia: sottintende, corruzione, accordi sottobanco o l’appartenenza a un’élite, e le persone non vogliono averci a che fare. Di conseguenza abbiamo preferito società, parola che deriva anche dalla scuola francese della sociologia pragmatica di Luc Boltanski e dalla sua idea che la democrazia dipenda da come le persone, anche in modo conflittuale, creano una comunità e uno spazio comune in cui vivere.
Le vostre ricerche indicano che, quando i giovani partecipano a strutture ufficiali come i consigli comunali dei giovani o il bilancio partecipativo, anziché essere più coinvolti, sono frustrati perché sperimentano una “simulazione di democrazia”, che non attribuisce un reale potere nel processo decisionale o nella definizione dell’agenda. Quali misure si possono adottare per farli sentire più efficaci?
Dando loro vero potere. Prendiamo il caso del bilancio partecipativo di un comune: può succedere che i giovani votino un progetto e poi l’istituzione ci metta anni a farlo. Il che significa che, se si tratta di una pista da skating, la votano quando sono ragazzi e la vedono realizzata quando sono adulti Promuovere questa forma di partecipazione equivale a disilludere i giovani. Invece dovremmo essere molto trasparenti sui limiti di quello che promettiamo, a costo di on avere giovani che partecipano o di accontentarci di generare un impatto piccolo, ma più veloce. Per i consigli dei giovani è la stessa cosa: alla fine insegnano ai giovani come fare politica e campagna elettorale, ma non attribuiscono loro nessun potere. Di conseguenza, molti se ne vanno o imparano le basi della politica e poi si candidano per cariche reali. Più in generale, comunque, la ricerca sulla partecipazione dei giovani ci insegna cosa non funziona, non cosa funziona: ad almeno sappiamo che ciò che va bene è far partire l’iniziativa dai ragazzi, non imporla dall’alto. Noi vediamo tanti giovani che promuovono interessanti iniziative che vengono messi da parte perché le loro idee non si adattano a un format che l’amministrazione pubblica capisce. Servirebbero più apertura verso le iniziative della gente e anche più tolleranza verso chi per frustrazione, diserta l’impegno civico e la politica.
A proposito di persone che rifiutano la politica, lei scrive che, per i giovani emarginati l’apatia è più una strategia di resistenza scelta attivamente che un segno di debolezza. Cosa possiamo fare per convincere questi ragazzi a interessarsi di nuovo alla democrazia?
Possiamo ascoltarli e aiutarli a fare ciò che per loro è importante anziché cercare di educarli o zittire chi non sa gestire le sue frustrazioni. Io ho condotto uno studio sociologico su un quartiere dove si registrava la minor partecipazione al voto del paese. Sono andata là pensando che dovevano convincersi di votare perché era nel loro interesse più che in quello di chiunque altro. Dopo 4 anni, ho capito perché non votano e ho pensato che, se fossi stata in loro, avrei fatto lo stesso. L’astensione era il modo di non dare legittimazione a un sistema che li aveva fatti sentire rifiutati. Questo per dire che c’è molto da imparare sulla presunta passività di persone ai margini della società ed è una facile accusarli invece di mettere sotto la lente le disuguaglianze di una società che si presenta come egualitaria, mentre lascia fuori tanti.
Ha fiducia nei giovani?
Non so se voglio dire che spero in un’azione collettiva; magari ci sarà, ma anche in società iper-individualizzata con l’impegno si ottengono cose buone. Pensiamo al citato movimento ecologista. Per la Finlandia il pericolo maggiore che vedo è la polarizzazione sociali: alcuni sono ricchi e se la cavano bene; altri molto meno, e questa divisione è rischiosa perché crea una situazione in cui le persone non si capiscono più e, come negli Usa, la politica può aumentare, anziché diminuire, il problema.ca