Vita interiore e intelligenza artificiale

Ormai usiamo chat GPT per qualsiasi cosa: chiedere consigli di itinerari per le vacanze, avere un supporto emotivo in caso di una giornata storta, ricevere spunti su come allenarci
Siamo tutti equilibristi della perfezione che ci fa correre meccanicamente e costantemente verso una meta. Il rimedio è la mediocrità nella sua vera accezione: stare nel mezzo.
«Pattinando sopra un ghiaccio sottile, la sola speranza di salvezza sta nella velocità», scriveva Ralph Waldo Emerson, teorizzatore del pragmatismo, molti anni prima di un’epoca – quella odierna – in cui l’unica possibilità di sopravvivenza è diventata la frenesia. Possiamo provare a ignorarlo, come Ulisse con le sirene; ma la realtà intorno a noi continua a cantare meccanicamente, costantemente, e monotonamente che dobbiamo correre, correre, correre. E verso un’unica meta: la perfezione.
Oggi, il costo di un ritardo è maggiore di quello di un errore: perché se persino chi si affanna a essere perfetto non riesce a ottenere il futuro desiderato, chi non lo è, allora, è definitivamente chiamato fuori dai giochi. La Multidimensional Perfectionism Scale – un test della University of British Columbia per misurare il perfezionismo – registra un significativo aumento dei tassi di questa ossessione negli ultimi decenni, con un’ascesa tra il 2006 e il 2022. Le cause? Quelle facilmente immaginabili: l’aumento delle aspettative sociali, professionali e personali; la crescente competizione nel mondo accademico e lavorativo; il mutamento dei metodi educativi e delle norme culturali; l’ampio uso di tecnologie digitali che hanno trasformato radicalmente il modo in cui interagiamo e ci confrontiamo con noi stessi e gli altri.
Vogliamo-dobbiamo essere i migliori a scuola, all’università e a lavoro. I migliori nella vita sociale e in quella privata. I migliori equilibristi sul filo delle scelte e del tempo. A dominare è la performance che, strisciando dal palcoscenico dei teatri, si è insinuata infimamente nella nostra quotidianità, imponendoci il ritmo della produttività e il traguardo della perfezione. Pur sapendo che quest’ultimo non sarà mai davvero raggiungibile, continuiamo a rincorrerlo perché rimanere indietro non è più un’opzione. Sia chiaro, nessuno ci obbliga a farlo; ma la pressione del non poter essere più imprecisi o irregolari (in un’altra parola, umani) è talmente pesante che il fallimento ha assunto le fattezze di un lusso letale. Il timore di essere come gli altri o inferiore agli altri ci terrorizza a tal punto da farci inseguire in modo ossessivo una chimera che può facilmente portarci all’autodistruzione. Il dazio di questo meccanismo è difatti la perdita di noi stessi: perché concentrati a essere di più, ci dimentichiamo di essere; e ci contorciamo per superarci, punendoci ogni qual volta emergono, timide, l’insoddisfazione e la frustrazione.
La realtà odierna ci sta imponendo un dettato: ma, come quando eravamo bambini, se la voce del maestro è troppo veloce rispetto alla nostra capacità di scrittura, allora il risultato sono tante parole mancanti, molti battiti accelerati e una sbavatura di inchiostro sul lato della nostra mano che segna in maniera indelebile il foglio; una macchia della nostra inefficienza.
Ma è possibile divincolarsi da questa impasse? Fa paura solo a pronunciarlo: ma l’unica speranza di salvezza, distorcendo le parole di Emerson, oggi, sta nella mediocrità – una parola che, deformatasi nel corso del tempo a livello semantico, etimologicamente significa solo «stare nel mezzo». Forse è davvero questo l’unico modo per sottrarsi alla tirannia dell’eccellenza: stare a distanza dai grandi e dai migliori, per accomodarsi in un’imperfezione che, paradossalmente, ci rende diversi dall’esercito omologato dei perfetti.