Gamification: quando la vita diventa un gioco

Il suo nome è gamification, e sta cambiando il modo in cui studiamo, lavoriamo, ci curiamo, ci spostiamo e persino come ci relazioniamo con gli altri. Ma cos’è davvero la g
È giusto progettare la portabilità delle proprie opere digitali? La storia del filologo Erich Auerbach ci insegna che possiamo farne senza e che l’ossessione di aggrapparci fisicamente ai nostri testi può essere un limitatore della creatività.
Quando si trasferisce ad Istanbul nel 1936 per fuggire al nazismo, prima di andare a vivere negli Stati Uniti il filologo tedesco Erich Auerbach compie un esercizio intellettuale incredibile. In tre anni scrive Mimesis: il realismo nella letteratura occidentale, un capolavoro del suo genere, senza poter usufruire della sua biblioteca, abbandonata in Germania durante la fuga.
È come se uno chef scrivesse un libro di nuove ricette senza poterle testare usando gli ingredienti, o come se un compositore (Beethoven ci ricorda qualcosa) scrivesse nuove opere avendo perso l’udito. Creare senza la nostra materia prima ci sembra impossibile, oltre che ingiusto. Invece Auerbach ragiona su Omero e discetta su Proust facendo ricorso unicamente alla sua memoria, a quella che William Marx chiama Libreria della mente, una biblioteca virtuale perché mentale, non digitale.
Quella di Auerbach è una storia lontana e in un contesto inimmaginabile. Eppure, è ciò che ci accade quando ci bloccano un account digitale. Così, per motivi di sicurezza, può succederci di non avere la portabilità dei contenuti, come Auerbach non poté disporre liberamente delle valigie in cui mettere tutti i suoi libri ed i suoi appunti per scrivere. Per un hackeraggio o per sistemi di protezione tanto giustamente rigidi da limitare l’accesso proprio all’utente che devono difendere, oggi capita di non disporre più dei nostri prodotti intellettuali digitali. C’è chi si vede per mesi bloccare l’account di Facebook, chi perde per sempre i video o le sue infografiche di Instagram, chi è derubato dalle password di accesso di TikTok e chi non trova più anni di articoli pubblicati su LinkedIn. Noi proviamo l’impressione tangibile di non poter più disporre dei nostri contenuti, mentre il nostro pubblico ha un’esperienza più esistenziale – che fine hai fatto? – si chiede pensandoci irreperibili.
Steph Ango, fondatore dell’App per scrittura Obsidian, ci dice in merito qualcosa di interessante, ed anche qualcosa che per il suo settore suona come rivoluzionario e contro il sistema. Se vuoi creare artefatti digitali che durino, devono essere file che controlli. Per riassumere quest’ idea si serve di un’espressione curiosa: file over app. Come dire che è giusto che il file – inteso come contenuto e produzione intellettuale dell’utente – debba essere più importante dell’App: carta mangia sasso. L’idea di controllare i propri contenuti, di renderli appunto “portabili” altrove ci sembra facilmente legittima. È la risposta razionale ad App che cambiano formato, passano di proprietà, magari falliscono. Ci sembra dunque inaccettabile l’idea di non poter disporre liberamente e di non poter controllare ciò che consideriamo nostro a tutti gli effetti, e che possiamo gestire come vogliamo per:
Pretendere libertà e controllo dovrebbe, infatti, darci la licenza di usare in ogni modo i nostri contenuti, senza limiti di spazio e formato, per venderli o regalarli, impacchettarli o archiviarli, oppure farli diventare qualcosa d’altro.
Non sono solo i vincoli tecnologici a frenare questa sorta di liberalizzazione dei contenuti, perché quando abbiamo tonnellate di file di testo oppure fotografie e video su Google diventa difficile rimboccarsi le maniche per trasferirli altrove.
C’è dunque di mezzo anche la pigrizia, quando si tratta di portarli fuori dal web per gestirli meglio, o per prolungarne la durata salvandoli da fusioni ed acquisizioni, obsolescenza oppure anche un semplice leak.
È per questo che stampiamo su carta una foto digitale e la infiliamo nel vecchio album di famiglia.
In questo desiderio di disporre pienamente di ciò che abbiamo prodotto c’è però qualcosa di più profondo, ed ha a che fare con la nostra illusione che possedere un artefatto fisico significhi possederne il sapere. Lo spiegava bene Umberto Eco nel suo libro Come scrivere una tesi, del 1977.
L’alibi delle fotocopie è un fenomeno per cui uno studente fa centinaia di pagine di fotocopie, le porta a casa e il lavoro manuale compiuto per farle gli dà l’impressione di possederne il contenuto. Possederle lo esonera dal leggerle.
L’ossessione di aggrapparci fisicamente ai nostri contenuti può quindi essere un limitatore della nostra creatività: senza la nostra biblioteca di contenuti, come Auerbach, dobbiamo ricorrere alla memoria e soprattutto alla fantasia. Ed è così che, a quanto pare, nascono i capolavori.