Comunità energetiche: come funzionano

La sfida climatica oggi non può più essere vinta da pochi. Ripensare le città, ridurre le emissioni e prepararsi agli impatti dei cambiamenti climatici richiede il coinvolgiment
Nella società contemporanea, gli acquisti hanno assunto una funzione profondamente simbolica: non servono più solo a soddisfare bisogni materiali, ma diventano un modo per raccontare chi siamo.
«È nel consumo di una eccedenza, di un surplus, che l’individuo, come la società, si sentono non semplicemente esistere ma anche vivere», scriveva Baudrillard nel 1970. E oggi, ancor più, il possesso di determinati beni non è di certo ascrivibile a un atto di sopravvivenza, ma, piuttosto, a un’esperienza simbolica che costruisce faticosamente l’identità di ognuno. Vivere significa accedere a oggetti e segni che confermano e legittimano la nostra esistenza in un ordine condiviso.
Lo spreco – lungi dall’essere un residuo irrazionale – assurge a valore sociale. Non è il risparmio né l’uso efficiente delle risorse a generare un significato, ma l’eccedenza: l’ostentazione del non necessario torreggia indiscussa come cardine intorno cui edificare un’identità da esibire. Dai calici riempiti per essere fotografati al cibo disposto come un’inviolabile installazione artistica, dalla tecnologia condannata all’obsolescenza ancor prima di raggiungere la sua maturità agli schermi ad altissima risoluzione orfani, in nuce, di occhi che li guarderanno: tutto obbedisce a un’unica legge, quella della rappresentazione.
Il consumo ha oramai perso ogni pretesa di neutralità, radicandosi in una dimensione simbolica in cui la funzione dell’oggetto soccombe al suo potere di generare una percezione: il bene materiale diventa un dispositivo di autorappresentazione, un riflesso attraverso cui la società – e l’io – si riconoscono e si raccontano.
È evidente al punto da risultare lapalissiano: l’identità non si forgia più nell’azione o nel pensiero, ma si misura nel possesso. Gli oggetti, da meri strumenti d’uso o di scambio, si sono elevati ad emblemi, a feticci carichi di significati sociali attraverso cui l’individuo si definisce ed esige legittimazione all’interno di un sistema condiviso; segni di un’identità che esiste solo nella misura in cui è riconosciuta dagli altri.
Il consumo non è più funzionale, ma rituale. Possedere significa esistere; e nell’accumulo di oggetti si sedimenta, cristallizzandosi, l’illusione di un’identità autentica. Possiedo, ergo sum. La codificazione sociale degli oggetti è diventata pervasiva al punto da svuotarli del loro valore intrinseco: i beni non contano per ciò che sono, ma per il modo in cui costruiscono e riflettono il nostro ruolo, la nostra immagine, la nostra postura nel sistema sociale; sono segni da decodificare, strumenti con cui negoziamo – e contrattiamo – la nostra identità.
Scegliamo e acquistiamo un alimento, un capo d’abbigliamento o una cosiddetta “esperienza” non per ciò che sono, ma per ciò che raccontano di noi: non mangiamo solo per nutrirci, ma per comunicare uno status; non ci vestiamo solo per coprici, ma per posizionarci in una narrazione estetica; non viaggiamo solo per conoscere, ma per collezionare momenti convertibili in resoconti sui social.
Il consumo è il motore propulsivo di un meccanismo incessante attraverso cui, come formiche instancabili, costruiamo e ricostruiamo di continuo la nostra apparenza, proiettandola in un sistema di segni condiviso – soprattutto oggi, nell’età delle immagini, dove ciò che non è visibile è, di fatto, inesistente.
Se questo meccanismo capitalizza ogni aspetto dell’esperienza, il bello ne rappresenta l’espressione più radicale, in quanto chiave di accesso a mondi che plasmano ancor più profondamente l’identità sociale. Il bello non è un semplice orpello né un capriccio edonistico, ma il dispositivo per antonomasia attraverso cui costruire ed esprimere un’identità culturale e personale. Oggi più che mai è misura di esclusività. Non basta però possederlo: bisogna esibirlo, legittimarlo attraverso lo sguardo altrui, inserirlo in una narrazione che sancisca appartenenza e distinzione.
Se anche il bello non è mai neutro, ma un atto di affermazione, una presa di posizione nel mondo, possiamo ancora concepirlo come un valore universale, o è ormai ridotto a strumento di esclusione e privilegio? Kant avrebbe difeso la sua universalità – e io, con lui, ne rivendico ancora alcuni spazi; ma è indubbio che nel tempo del consumo simbolico, il bello si è fatto codice: una lingua parlata solo da chi detiene il diritto di nominarla.
Di certo gli oggetti non sono mai stati democratici; ma oggi – nel corso della dittatura del simbolismo – sono divenuti strumenti di selezione e gerarchia: includono o escludono, convalidano o relegano. L’oggetto verbalizza ciò che non siamo più capaci di esprimere altrimenti.
Dunque, abbiamo superato – e persino di gran lunga – l’analisi di Baudrillard perché oggi il possesso, da solo, non basta più; non è l’oggetto in sé a definire status e appartenenza, ma la sua esposizione. Non si consuma solo per distinguersi, ma per essere visti. Fatta eccezione per quell’élite ristretta che, nelle sale giochi del potere, sottrae deliberatamente l’oggetto alla sfera pubblica (si pensi alle opere d’arte rinchiuse in bunker, precluse allo sguardo altrui), il consumo si realizza oramai solo nell’esibizione, sigillo di un’identità che deve essere riconosciuta pubblicamente e collettivamente.
Gli oggetti hanno, per così dire, ritrovato un valore di scambio, ma non più nella loro funzione economica: sono diventati la moneta (o forse l’obolo necessario?) con cui negoziamo il nostro posto nel mondo.