Cosa sono i brainrot e perché dovremmo farcene una ragione

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Cosa sono i brainrot e perché dovremmo farcene una ragione

Ormai sono ovunque. Per alcuni è una parola ufficiale, entrata nel vocabolario come anni fa era successo a “petaloso”. Per quanto possano sembrare senza senso, la nuova tendenza di TikTok può essere uno spunto valido per delle analisi sociologiche interessanti.

Sono a Bruxelles, durante un evento organizzato dal Parlamento Europeo per far conoscere meglio a noi creator il mondo delle relazioni istituzionali a livello comunitario. Ci sono persone di ogni età, da ogni Paese, che parlano decine di lingue diverse. Dopo qualche chiacchiera formale e introduttiva, scoprono che sono italiano. Il primo commento dei ragazzi intorno a me non è sulla pizza, il mandolino, la pasta o la mafia. E neanche sul calcio. È sui “brainrot” di TikTok.

“Ma davvero parlate così?”, mi chiede un ragazzo francese. “Tralalero Tralalà” rincara una spagnola. “Ballerina Cappuccina” aggiunge uno svedese. Io sorrido un po’ per orgoglio, un po’ per imbarazzo.  Ma in fondo, come faccio a dargli torto? I brainrot hanno davvero colonizzato il mondo. E la cosa più assurda, è che ci hanno messo solo poche settimane. Ma partiamo dalle basi.

Marciume cerebrale

Se non li conosci, o il tuo cervello -giustamente- si rifiuta di conoscerli, ti spiego: i “brainrot” sono brevi video su TikTok (e ora anche altrove), montati in modo frenetico e apparentemente privo di senso. Protagonisti animali con caratteristiche umane generati dall’AI, musica semplice, voce meccanica text-to-speech con parole scurrili, ed editing che simula un’esplosione. Riassunti in un unico aggettivo: surreali.
La parola “brainrot” significa letteralmente “marciume cerebrale”. Un modo ironico per dire: so che sto guardando una cosa che mi brucia neuroni, ma non riesco a smettere. E mi fa anche ridere, anche se non capisco esattamente perché. Nel 2024 è diventato addirittura il “termine dell’anno” secondo l’Università di Oxford, e pochi giorni fa una nota azienda italiana ci ha realizzato un intero album di figurine. Se fino a qualche mese fa erano una nicchia di TikTok italiani, oggi sono esplosi ovunque, e fuori dall’Italia ci guardano come se avessimo inventato una nuova forma d’arte. Molto più facili da vedere, che da spiegare.

Una sola domanda: perché?

Una domanda interessante che in realtà non ha una risposta. Il fenomeno, infatti, è un mix di tendenze di internet passate e per questo motivo è difficile, se non impossibile, capirne l’origine. Possiamo però interrogarci sul perché abbia avuto così tanto successo.

In fondo il nostro Paese ha sempre oscillato tra il drama e il nonsense. Siamo cresciuti con i doppiaggi di MaiDire, le gif modificate di Tina Cipollari, e video YouTube Poop remixati in modo surreale con software come Windows Movie Maker. Questo tipo di ironia è sempre esistito, ma non aveva un nome.
Il brainrot è solo l’ultima evoluzione di tutto ciò. Ma accelerata, digitalizzata, e svuotata da qualsiasi significato. La versione Gen Z (o meglio, Alpha) del trash anni 2000.È satira sociale, autocritica, una forma di ribellione creativa in un mondo perfetto e che si prende troppo sul serio. La rivincita definitiva di TikTok rispetto al mondo patinato di Instagram.

Uno strumento di espressione

Molti adulti vedono questi video e non capiscono di cosa si tratti. Non riescono neanche lontanamente a capire perché certe persone, a prescindere dall’età, possano trovarli divertenti. Spoiler: anche molti ragazzi se lo chiedono. E la storia si ripete. Questo perché il brainrot, più che un meme, è un linguaggio che fa sentire determinate persone unite. Una sorta di subcultura dell’internet, che fa divertire proprio per l’impatto mediatico su scala globale che ha generale. Non c’è bisogno di altro:

Viralità+nazionalismo=identità collettiva=divertimento

Il successo dei brainrot dice molto di noi. Della voglia di non prenderci troppo sul serio. Del bisogno di sentirci parte di un flusso anche se non capiamo del tutto dove va. In un certo senso, i meme del 2025 rappresentano il modo in cui l’umorismo sopravvive in un’epoca post-ironica. Sono figli di una generazione che ha ereditato un mondo instabile, saturato di notizie, performatività e contenuti sempre più raffinati, ma sempre meno autentici. Dove tutto è già stato detto, il nonsense diventa uno dei pochi modi per dire qualcosa di nuovo.

Non è disinteresse. È una forma di resistenza alla lucidità costante. Una specie di glitch culturale collettivo, in cui il caos viene rivendicato non per distruggere, ma per sentirsi vivi. A chi guarda da fuori sembra spazzatura, ma dentro TikTok rappresenta un codice: un lessico affettivo, un collante comunitario, un modo per dire “sto qui” anche quando il resto del mondo sembra incomprensibile. Non è che la Gen Z e la Gen Alpha vogliano davvero spegnere il cervello. È che, per una volta, vorrebbero sentirsi liberi di non doverlo tenere sempre acceso. Mi pento di non averlo spiegato così ai miei colleghi a Bruxelles. Avrei potuto evitare che pensassero che uno squalo con le scarpe Nike fosse la nostra nuova Gioconda.

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Creator, imprenditore e specialista in comunicazione digitale. Ogni sabato sera, su La7, nel programma “In altre parole” di Massimo Gramellini fa il resoconto social dell’attualità. Ha iniziato la sua carriera sul web dieci anni fa con una serie di progetti virali, ma tutti accomunati da un focus sulla responsabilità e il sociale. Oggi, oltre ad essere consulente creativo all’interno della sua azienda Billover 3.0, si occupa di sensibilizzare le nuove generazioni sui rischi e le potenzialità del web. Crede fortemente nell’educazione e nella consapevolezza che racchiude all’interno del neologismo “Unfluencer”.