Felicità sostenibile: la dieta che salva te e il pianeta

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Felicità sostenibile: la dieta che salva te e il pianeta

Possiamo provare a giocare la partita del cambiamento come singoli? La mia risposta è «dobbiamo» e vi spiego perché.

Comincia dalla sicurezza alimentare il viaggio di Grammenos Mastrojeni alla ricerca di soluzioni che possono condurci con i nostri comportamenti verso una felicità sostenibile

In diverse epoche storiche abbiamo risolto il problema della sicurezza alimentare o grazie a un’eco-sistema tanto vergine quanto generoso – ove dovevamo cacciare e raccogliere – oppure grazie a un duro ma intelligente lavoro nei campi. In un’unica epoca, tuttavia, ci siamo trovati in massa ad affrontare una situazione per cui, evolutivamente, non sono fatti né i nostri corpi né le nostre menti: ed è la nostra epoca. Almeno per una privilegiata ma ampia porzione dell’umanità, il cibo e la bevanda sono diventati come l’aria, si possono quasi dare per scontati e non c’è più bisogno di lottare troppo per averli. Tuttavia, questo è accaduto da poco, mentre la nostra macchina culturale, psicologica e anatomica è ancora protesa ad assicurarsi cibo e a mangiarne il più possibile. I nostri istinti sono diventati disfunzionali: usciamo ancora soddisfatti da frequenti pasti saturi e sovrabbondanti, sebbene non ci sia più nessun bisogno di accumulare grasso per l’inverno o scorte di energia per il duro lavoro manuale. Staremmo meglio noi, e starebbe meglio il pianeta, se dosassimo i nutrimenti come sarebbe naturale in un sistema in cui il cibo non è disponibile in quantità illimitate.

Immaginiamo di esserci dati il fermo proposito di mangiare meglio, pensando solo ed egoisticamente alla nostra forma e salute, e anche al nostro portafoglio. Ingredienti migliori, cucina migliore, imballaggio e conservazione migliori, tempi e ritmi migliori. La nostra scelta dobbiamo però compierla nel contesto attuale e reale, che è utile conoscere. A livello globale produciamo molto più cibo di quanto sarebbe necessario per fornire un’alimentazione dignitosa a tutto il genere umano e quindi, in linea di principio, avremmo raggiunto la sicurezza alimentare planetaria. Il merito di questo straordinario passo in avanti va alla scienza e alle tecnologie applicate durante quella che – paradossalmente – è nota come la rivoluzione “verde”. Si tratta di un complesso di interventi nella produzione e trasformazione agricola, avviati negli Stati Uniti nel 1944 e poi divenuti generali, che hanno dato vita all’agricoltura cosiddetta industriale: selezione e ingegneria genetica delle specie, meccanizzazione spinta, pesticidi e fertilizzanti, tanto per cominciare. Certo hanno assicurato per decenni produzioni che crescevano più di quanto cresceva la popolazione mondiale – in barba a Malthus e alle sue fosche elucubrazioni – ma al prezzo di falcidiare la biodiversità, degradare i suoli, inquinare, accelerare l’effetto serra con un’ampia dipendenza dai combustibili fossili.

Se continuiamo di questo passo il risultato complessivo di un’azione per la sicurezza alimentare che ha dei costi sociali e ambientali sarà la perdita generale della sicurezza alimentare: un paradosso, ma succederà; anzitutto col progredire della crisi climatica. Attualmente, ad ogni modo, stiamo meglio che nel passato pretecnologico, ma molto peggio di come potremmo stare se avessimo applicato scienza e tecnologia sintonizzandole sulla natura nostra e del pianeta.

Grazie scienza, grazie tecnologia che ci fate produrre calorie sufficienti a sfamare più di dieci miliardi di persone. Ma chi dobbiamo ringraziare se questo apparente successo si è trasformato in un sistema che spreca un terzo del cibo prodotto, depreda risorse come le foreste – diminuendo l’assorbimento di CO2 e favorendo la diffusione di morbi – e che ha indotto una pericolosa polarizzazione nell’umanità fra due miliardi di iper-mangiatori insalubri a fronte di 815 milioni di denutriti?

Non si tratta di lodare gli aurei tempi passati, funestati da guerre, carestie e pestilenze, segnati da attese di vita alla nascita di molto inferiori alle nostre: benvenuta scienza, grazie tecnologia! Si tratta invece di cogliere il paradosso. Oggi avremmo tutto – scienza e risorse – per liberarci tutti dai mali del passato; invece abbiamo abbracciato un sistema che questi mali ce li restituisce amplificati e invincibili, e che possiamo cambiare al solo prezzo di distribuire le risorse per vivere tutti meglio. Se orientassimo giuste dosi di tecnologia su produzioni più piccole, sovrane e locali, culturalmente ricche e varie, ne avremmo per tutti di cibo, migliore, e in ragionevole abbondanza. Non solo, ma le diete sarebbero meno avvelenate, potrebbero provenire all’uomo in dosi salutari, da animali che hanno vissuto un’esistenza dignitosa e senza antibiotici, o da vegetali cresciuti in terreni sani, fertilizzati con deiezioni di animali sani, riportando il sistema agricolo alla sua dimensione, cioè quella di un sistema chiuso che non crea effetto serra poiché il ciclo del carbonio si compie senza residui. Tutto questo al posto dell’agricoltura industriale, quella degli obesi contro i denutriti, che invece è responsabile di oltre il 20% dei gas serra.

Basti pensare che un numero enorme di animali, circa 70 miliardi, vengono allevati ogni anno nel mondo per la nostra alimentazione (esclusi i pesci). In Europa, più dell’80% provengono da allevamenti intensivi: animali geneticamente selezionati per una produttività sempre maggiore, confinati in edifici sovrappopolati, dove non possono esprimere alcuno dei comportamenti naturali della loro specie. E per quanto riguarda pesticidi e fertilizzanti le cifre sono impressionanti: ogni anno si utilizzano in Italia circa 1,3 miliardi di Kg di pesticidi e fertilizzanti, pari a circa 100 Kg per ettaro coltivato, corrispondenti a circa 14 Kg per abitante; nel mondo ne sono stati usati 605 miliardi di Kg, pari a circa 125 Kg per ettaro coltivato, circa 80 Kg per abitante della terra, compresi coloro che non hanno nulla da mangiare. Non solo nuoce alla natura, ma riflette un’immane diseguaglianza, in cui quelli che non partecipano ai vantaggi, tuttavia, si sobbarcano tutti gli inconvenienti.

Ma la diseguaglianza porta il sistema Terra a uno squilibrio che si trasforma in minacce per la sicurezza, la dignità, la pace e, certo, anche la salute. E vale in tutti i settori, non solo quello dell’approvvigionamento del cibo. Se alcuni concentrano le loro vite nel produrre un reddito dedicato a oggetti che non hanno neppure il tempo di usare, mentre altri cercano brandelli di quegli oggetti nelle discariche; se ci si complica l’esistenza con tre auto in garage, mentre una donna in un villaggio dell’Africa deve fare dieci miglia a piedi per un orcio d’acqua, Madre Natura ci restituisce il conto con gli interessi. Non è una vendetta morale: la natura entra strutturalmente in degrado con le diseguaglianze, perché ha raggiunto il proprio equilibrio distribuendo equamente le proprie energie, attraverso milioni di anni di adattamento.

Questo è lo stato dell’arte globale e verrebbe da rispondere che esso richiede una correzione altrettanto globale, imposta dall’alto dalla politica nazionale e internazionale. Ma se fossero più rapidi ed efficaci i nostri gesti personali? Proviamo a esplorarli nel prossimo post.

È​ Vice Segretario Generale per l’Energia e l’Azione Climatica dell’Unione del Mediterraneo. È​ un diplomatico italiano ed è stato coordinatore per l'eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo. È stato delegato alle Nazioni Unite, console in Brasile, consigliere politico a Parigi e, alla Farnesina, responsabile dei rapporti con la stampa straniera e direttore del sito internet del Ministero degli Esteri. Da una ventina d'anni concentra la sua attenzione sui cambiamenti climatici. Nel 2009 la Ottawa University in Canada gli ha affidato il primo insegnamento attivato da un'università sulla questione ambiente, risorse, conflitti e risoluzione dei conflitti. Collabora da tempo con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore.