Neko Health: il fratello di Spotify che ci salverà la vita

Daniele Ek, una delle menti dietro il colosso della musica Spotify si sta impegnando in un progetto decisamente diverso ma altrettanto ambizioso: Neko Health, una startup che mira
Essere stati attraversati e invasi dalla sofferenza, toccandone la superficie tagliente, respirandone l’odore acre, avvertendone il sapore metallico, dischiude opportunità inedite.
In greco antico, trauma significa ferita, perforamento, lesione. È un’incisione nella continuità dell’ordine, un taglio che incrina pericolosamente la percezione del mondo che, fino a istanti prima, abitavamo. Talvolta è a tal punto strabordante da costituire quella che Freud definì «eccedenza psichica»: un sovrappiù che la mente non riesce a integrare, un eccesso che si deposita come un resto inassimilabile, un’ombra che persiste oltre l’evento, riemergendo dove e quando meno è attesa.
Ma il trauma non è sempre un esito violento. Non si tratta, difatti, di cosa accada, ma di come il nostro corpo e la nostra mente lo recepisca. Non è la portata effettiva dell’accadimento a definirne la natura, ma la soggettività di chi lo attraversa: ciò che per alcuni può risultare trascurabile, per altri è ferita profonda, non rimarginabile. Il sistema nervoso, in quest’ultimo caso, si riconfigura, affinandosi sino all’ipersensibilità: registra ogni variazione come una minaccia, ogni tempo come un allarme. Quando il dolore si affaccia come eventualità – e continuativamente si affaccia, intrecciato com’è ineludibilmente alla possibilità stessa dell’esperienza – allora ci si ritrae. E sempre più frequentemente noi, generazione di cristallo, ci chiudiamo in esistenze anemiche, anestetizzate, indifferenti.
Ma cosa accade quando il dolore è eluso preventivamente? Quando, per paura della bruciatura, ci si ritrae dal calore? Quando, per neutralizzarlo, ci si imprigiona in una nella corazza fredda – ma tuttalpiù confortevole – della intangibilità? Ci si priva della possibilità, dell’esperienza – e di tutto ciò che, per un paradosso crudele e inevitabile, la caduta potrebbe restituirci.
Viviamo in un mondo ossessionato dalla rimozione del dolore, che ha fatto della vulnerabilità un cimelio da preservare – anche a costo della sottrazione alla vita stessa. Ci si illude che proteggersi significhi esistere più a lungo, quando, in realtà, significa vivere di meno.
Si è imposta – ormai dilagante – la convinzione che il dolore sia una variabile da evitare. L’incertezza spaventa più del limite, la vulnerabilità più della rinuncia, e così, nel tentativo di preservarci dall’imprevisto, scivoliamo nell’apatia; perché ogni movimento porta in sé la possibilità dell’urto, ogni scelta contempla il rischio della frattura. In tal caso, dunque, dell’esperienza non resta che il simulacro; della vita, nulla fuorché la sua versione più opaca e cauta, immobile nella paura di farsi reale. Il dolore non è una deviazione dell’esistenza, ma la forma stessa in cui la vita si impone.
Il trauma è ferita, certo: è un varco in cui il tempo si contrae e si dilata, un istante in cui l’identità si frantuma e chiede disperatamente di essere ricostruita. Ma è anche ma anche soglia giacché in quello stesso nucleo si dischiude una possibilità. Questa non è un’apologia del dolore: non lo celebro, non lo innalzo, non lo esalto. Ma lo riconosco. Lo identifico come costrizione, come motore propulsivo della scelta: non la paralisi, dunque, ma il movimento, il contatto con il mondo.
Per quanto feroce, la sofferenza non può essere censurata, né relegata, senza che vi siano conseguenze: perché la verità è che, se non ardiamo, talvolta bruciandoci, finiamo per spegnerci. Essere stati attraversati e invasi dalla sofferenza, toccandone la superficie tagliente, respirandone l’odore acre, avvertendone il sapore metallico, dischiude – per uno di quei giochi sadici della natura – opportunità inedite.
Per sé: perché ogni trauma è ferita, ma anche una fenditura da cui può sgorgare il fiotto del desiderio. Quest’ultimo sgorga sempre dallo spazio lasciato vuoto dall’assenza: dunque, nel fondo della sofferenza, persino quella che pare insopportabile, si nasconde – invisibile ma irriducibile – la volontà di esistere, ancora.
Per gli altri: perché il dolore è linguaggio, è un codice muto, una forma di riconoscimento che non necessita di verbalizzazione. Si scorge un bagliore impercettibile, l’istante in cui una crepa nell’altro si lascia intravedere, pur senza mai essere dichiarata, e si coglie la fragilità altrui prima ancora che venga – eventualmente – mostrata o dichiarata.
Il dolore si fa lente: è strumento di rivelazione immediata dell’altro, di quel substrato vibrante – perché dolente, ma vivente – che soggiorna sotto la sua superficie spaventata.
Questa forma di riconoscimento non appartiene a chi si è preservato, a chi si è tenuto al riparo dalla possibilità della ferita. L’assenza di dolore non educa allo sguardo, non affina la percezione: chi non ha mai tremato non riconosce il tremore, chi non ha mai sentito lo strappo non sa leggerne la traccia. Perché il dolore si riconosce, si fiuta, si avverte prima ancora di essere svelato – come animali che si annusano non per ciò che appaiono, ma per il residuo invisibile che trasmettono.
È da quel contatto muto, da quell’incontro tra ferite che si intuiscono senza essere dichiarate a poter nascere – per un ennesimo paradosso crudele ma obbligato – altra vita. Non perché il dolore nobiliti, non perché innalzi: ma perché è in quell’istante, in quell’affiorare muto, che l’altro cessa di essere opaco e si fa leggibile. Il dolore – quando non è negato – è ciò che più radicalmente ci sottrae alla solitudine.