Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
Il duello tra immediatisti e transizionisti alla ricerca di soluzioni climatiche e la contrapposizione tra colpevolisti e gli efficientisti su chi dovrebbe pagare il conto del cambiamento allontanano dalle soluzioni.
Tutti vogliono farsi vedere alla CoP, la riunione annuale degli Stati membri della convenzione ONU sul clima: assieme all’Assemblea Generale dell’ONU è diventata l’annuale torneo e vetrina immancabili del mondo internazionale che conta. E così, dopo 11 mesi di silenzio, ogni novembre si scatenano i media a parlare nuovamente di clima e ancor di più di quelli che parlano di clima. Siamo reduci dalla 27° edizione del torneo, la CoP27, ove in sintesi è stata approvata l’idea – tutt’altro che scontata – di un fondo internazionale per indennizzare i paesi più fragili dai danni di un clima impazzito non per colpa loro. Ma passato il principio, resta ancora da concretizzare il valore, i donatori, la struttura, le modalità, i beneficiari… insomma, tutto. Inoltre, ci si aspettava che a Sharm el-Sheikh i Paesi membri annunciassero degli impegni di riduzione delle emissioni più ambiziosi mentre – complice anche l’ansia energetica causata dalla crisi ucraina – non s’è visto per niente. Alla domanda «è stato un successo o insuccesso?» rispondo «lavori in corso». Questa non è stata la CoP in cui tutti si sono messi d’accordo. Ma in realtà questa è la domanda sbagliata.
Quando si studia tecnica negoziale si impara subito a non cadere in una trappola istintiva: vincere nelle trattative perdendo invece nella situazione reale a cui si riferiscono. Non è raro che la pulsione a prevalere nella sala del negoziato – vissuta come un duello – faccia compiere scelte che poi si rivelano disfunzionali. I negoziatori esperti lo sanno, ma in questa trappola cadono spesso gli osservatori esterni, compresi molti media: alla CoP, chi ha vinto e chi ha perso? Ci si chiede, di ogni CoP, è stata un successo per la Presidenza di turno o un fallimento? E si sviscerano allora le singole decisioni, si valuta chi è prevalso, ponendosi la domanda più irrilevante sul più vasto e importante negoziato della storia, il cui obbiettivo è la sopravvivenza della specie umana come civiltà organizzata.
Pochi si chiedono qual è davvero la posta in gioco e, soprattutto, se quanto è stato deciso è davvero utile. Cominciamo dal negoziato nel suo insieme – non dal singolo episodio – e poi vediamo cosa porta nel mondo reale. Del resto, il negoziato climatico è intricato e pieno di tecnicismi: l’una o l’altra decisione è comprensibile solo per gli specialisti. Invece bisogna spiegare meglio cosa c’è sotto.
Sotto ci sono due tensioni irrisolte: una fra immediatisti e transizionisti. I primi dicono che non c’è tempo, siamo sull’orlo di un collasso naturale catastrofico e quindi dobbiamo vietare da subito tutte le emissioni anche perché le alternative ci sono: ad esempio le energie rinnovabili, ed hanno ragione. I secondi obbiettano che se vieti tutto e subito mandi a casa milioni di persone sia nei Paesi ricchi che in quelli poveri questo provocherà una destabilizzazione che alla fine – fra disorganizzazioni e disordini – creerà ancora più emissioni di quelle risparmiate. E il problema è che hanno ragione anche loro. Questo è il caso del gas, un fossile un po’ migliore degli altri, di cui tutti hanno bisogno – anche date le circostanze – nei Paesi ricchi e che dà ai Paesi poveri più risorse per finanziare la transizione. Allora il gas, lo buttiamo via oppure lo usiamo come uno strumento per la transizione? È difficile, ad esempio, per il pubblico capire come tutto questo dilemma si sia nascosto dietro la scelta fra due parole, “out” o “down”? nell’accordo – ci si era chiesto a Glasgow – dobbiamo scrivere phase out o phase down?
La seconda contrapposizione riguarda chi paga il conto, ed è il famigerato capitolo del “loss and damage”. Qui ci sono i colpevolisti e gli efficientisti: i primi, che sono Paesi in via di sviluppo, dicono che il danno l’abbiamo provocato tutto noi e quindi tocca a noi pagare i costi della transizione e compensare i loro danni. Gli efficientisti invece dicono che è meglio ripartire il peso economico della transizione dimenticando il passato e guardando al futuro, ognuno contribuendo con quello che ha; infatti, se i Paesi industrializzati finanziassero da soli tutta la transizione globale ci sarebbero sperperi e soprattutto i loro sistemi si incepperebbero al punto che poi pagherebbero molto meno perché non avranno più le risorse. E anche loro hanno ragione. Così, non si è ancora deciso bene chi paga, quanti soldi, quando e come.
Alla fine, credo che il litigio non sarà risolto dalle CoP ma dalle economie reali: queste sono transizioniste ed efficientiste, ma hanno capito che – senza provocare shock insuperabili e distruttivi – bisogna risolvere la situazione e, oltretutto, farlo conviene perché genera un enorme volume di business innovativo.