La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Come durante la pandemia, anche nei giorni della guerra in Ucraina sui social e non solo imperversano bufale e notizie di propaganda. Ecco come orientarsi al meglio.
C’è il caso del cosiddetto fantasma di Kiev, il pilota ucraino che avrebbe abbattuto decine di aerei russi la cui esistenza reale non è mai stata provata, oppure la sfida a colpi di fotogrammi sul destino delle partorienti dell’ospedale pediatrico di Mariupol, o ancora la narrazione della propaganda russa volta a sminuire gli orrori di Bucha, sino ad arrivare all’incredibile bufala dell’arruolamento dell’attore Stevan Seagal tra le fila delle milizie russe.
Sin da quel nefasto 24 febbraio, la prima guerra social della storia europea è stata caratterizzata da un profluvio di false informazioni, notizie di propaganda, mistificazioni e vere e proprie bufale che hanno avvelenato il clima, inquinato il dibattito, distorto il racconto di una pagina di storia che ha rimandato l’orologio della geopolitica mondiale indietro di decenni.
Il fenomeno delle fake news che dai social migrano sui media mainstream non è ovviamente nuovo. Ne abbiamo avuto un’eclatante prova durante gli anni della pandemia, tuttavia secondo Giovanni Zagni, Direttore di Pagella Politica e di Facta, progetto di fact-checking che si occupa di notizie false e disinformazione, «oggi rispetto al recente passato pandemico, la disinformazione viaggia su canali ufficiali e ogni giorno assistiamo a profili social delle varie ambasciate spingere tesi di disinformazione dimostrabilmente false». Quindi, se durante la pandemia da Covid-19 c’era una contrapposizione netta tra mondo scientifico-istituzionale e diffusori virali di fake news, oggi, durante la guerra in Ucraina, il contesto si fa più sfumato. «Negli ultimi due anni abbiamo dovuto affrontare questioni scientifiche complesse, appoggiandoci sull’expertise dei tecnici (virologi, infettivologi, ecc…), mentre oggi si assiste a una disinformazione bipartisan, dinanzi a cui è molto difficile mantenere l’imparzialità, con il perenne rischio di essere percepito come sostenitore dell’una o dell’altra parte».
Propaganda ucraina e propaganda russa disegnano un contesto dove è sempre più difficile orientarsi, eppure, come sottolinea Zagni, «un fattore appare chiaro: una delle due parti della contesa è più credibile dell’altra, perché poggia su fonti più sicure, più dimostrabili». Ovviamente questa parte è quella che può contare su un’informazione più libera, su giornalisti che sono sul campo e che con i loro occhi, i loro obiettivi e le telecamere stanno documentando quello che realmente sta accadendo sul terreno di guerra. «Oggi si assiste a una vera rinascita del ruolo dell’inviato, che rappresenta una fonte primaria, proprio grazie alla sua capacità di documentare i fatti», ci dice Zagni. «Un esempio? All’indomani della Pasqua ortodossa più fonti hanno avanzato il dubbio sulla reale autenticità dei video che ritraevano Putin presente alle cerimonie. In realtà questi dubbi sono stati fugati proprio dai reporter che hanno diffuso real time sui social le foto del capo del Cremlino».
Si dirà: ma la propaganda è sempre esistita in ogni conflitto. Vero, ma quella che era la disinformatia tipica del clima di guerra fredda oggi assume connotati più pervasivi, data l’alta capacità virale dei social che raggiungono anche quei pubblici in passato ai margini della sfera pubblica mondiale.
Proprio al rapporto tra utente e social network è dedicato “Sociability”, l’ultimo libro di Francesco Oggiano, giornalista di Will Media e “profilo noto” di Instagram. «I social sono i bar del futuro e si basano sulla ricerca da parte dei creatori di fake news della viralità della notizia, che a sua volta si basa sull’emozione dell’indignazione che può essere provocata anche da notizie amplificate, quando non del tutto false», osserva Oggiano. «Ma i social permettono anche la verifica delle fonti e degli stessi contenuti».
I social, dunque, come veleno e come antidoto di un dibattito in cui per orientarsi bisogna cimentarsi in arditi slalom tra le trappole delle fake news. Ma come può ciascuno di noi difendersi da tutto questo? Secondo Oggiano, «innanzitutto bisogna sempre ad avere più fonti per le proprie informazioni, perché se ne abbiamo una sola lei controlla noi, se ne abbiamo dieci siamo noi che controlliamo loro; poi si deve cercare sempre la fonte originale, ovvero chiedersi chi ha diffuso e condiviso, per primo la notizia; diffidiamo poi dalla notizia che ci sembra troppo bella o poetica che spesso è costruita ad arte per la narrazione social e infine dobbiamo sempre sospettare di quelle notizie che confermano pregiudizi personali o i bias che spesso guidano il nostro modo di informarsi».
Per non naufragare nel mare delle fake news, recentemente anche il New York Times ha espresso una serie di consigli. Secondo il noto giornale americano, dinanzi a un contenuto che vogliamo diffondere è utile chiedersi quale sia l’identità del suo autore, occorre prestare attenzione alle fonti che cita, diffidare dagli account con numeretti e nomi buffi e dai post con troppi hashtag che sono acchiappa-clic. Si possono poi usare i motori di ricerca per risalire alle prime condivisioni delle news o alle prime versioni delle immagini o dei video, consultare i fact checker e prestare attenzione anche alle truffe che possono arrivare da iniziative di raccolta-fondi.
Consigli che possono valere in tempi di pace, di guerra o di pandemia, anche perché non è un caso che i meccanismi di diffusione delle bufale siano simili, così come i gruppi sociopolitici che le diffondono. «Abbiamo assistito a un certo legame tra i gruppi Telegram dei no vax e quelli pro-Putin – ha osservato Francesco Oggiano – segno che credere alle fake news è una questione di metodo, più che di merito. Alla base c’è la voglia di andare a seguire un’altra verità rispetto a quella ritenuta dominante. Una reazione che risponde anche all’istinto che vede l’uomo esprimere innanzitutto negazione dinnanzi a un trauma (che sia un virus o una guerra)». E parlarne, alimentare il dibattito e la consapevolezza potrebbe rappresentare davvero la nostra prima arma di difesa.