Non sono diversi i giovani: è cambiato il mondo dell’informazione

Non sono diversi loro, sono cambiate le regole del gioco. Chi accusa i giovani di non informarsi guarda il mondo con occhiali vecchi: l’informazione non è più un appuntamento,
Una domanda all’IA. Viviamo in un mondo sempre più connesso, eppure la solitudine cresce come un’ombra silenziosa. Dalla salute mentale ai rapporti sociali, gli effetti si avvertono in ogni fascia d’età. Ma può davvero diventare la prossima grande epidemia globale?
I dati dicono che la solitudine non è un sentimento marginale, ma un fenomeno sociale con conseguenze profonde. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha recentemente definito la solitudine un problema di salute pubblica globale. Uno studio pubblicato sul sito dell’Harvard School of Public Health stima che, «tra persone inizialmente in buona salute seguite nel tempo, la solitudine è associata a un aumento del 26 % del rischio di morte prematura; l’isolamento sociale al 29 %, e vivere soli al 32 %».
La pandemia ha accelerato il trend: smart working, isolamento e digitalizzazione hanno reso i contatti umani più rarefatti. Secondo un sondaggio dell’Associazione di psichiatria americana, il 30% degli adulti statunitensi aveva provato solitudine nell’ultima settimana. Uno su dieci tutti i giorni. Le proiezioni indicano che, se non affrontato, questo fenomeno crescerà nei prossimi decenni, alimentato da invecchiamento demografico e individualismo urbano. L’IA può aiutare a misurare e prevenire l’isolamento, ma non può sostituire l’esperienza autentica delle relazioni umane.
Parlare di solitudine come “epidemia” significa riconoscere un cambiamento epocale: la salute non è solo fisica, ma anche sociale. L’impatto è trasversale. Sul lavoro, l’isolamento riduce creatività e produttività; nella società, indebolisce la coesione e alimenta disuguaglianze; nelle città, mette in discussione il modello di vita urbana.
Se un tempo la comunità era data per scontata – il quartiere, la parrocchia, la piazza – oggi la rete sociale va costruita consapevolmente. Il rischio è che la tecnologia, nata per connettere, diventi un moltiplicatore di distanze.
La solitudine non è un destino inevitabile, ma un segnale di fragilità collettiva. La domanda non è se sarà la nuova epidemia del futuro, ma se sapremo prevenirla costruendo comunità resilienti e relazioni autentiche. In un’epoca di iperconnessione, il vero lusso potrebbe diventare la vicinanza umana.