Sei consigli per difenderci dalla plastica
La plastica è presente nella nostra vita quotidiana da oltre settant’anni ed è così fondamentale che la diamo per scontata senza renderci conto della sua pervasività. Secondo
Ma davvero essere felici è diventato un obbligo morale e un’etichetta sociale? Così il sorriso è diventato una merce di consumo.
«Perché non ridi?»; «ma non sei felice?»; «perché non provi a essere felice?»: queste sono le domande che ho ricevuto più frequentemente nel corso della mia vita. Mi auguro che, voi lettori, non abbiate registrato le stesse statistiche e, soprattutto, non abbiate incontrato qualcuno che, come in un incubo perturbante accompagnato dalla melodia di Leoncavallo, vi abbia letteralmente costretto a sorridere.
La sorte sembra però comune: perché oggi la felicità pare essere diventata obbligatoria. Bisogna mostrarsi felici e contenti a tutti costi perché essere tristi, rispondere «male» alla domanda «come stai?», o semplicemente mostrarsi indifferenti alla forzata ricerca di questa chimera, non sta bene; non è un guanto calzante alla mano ingombrante di questa società che, anche tramite i social network, ha trasformato il sorriso in una merce di consumo, da produrre, vendere e poi preservare.
I pensieri, la sofferenza, la nostalgia, la malinconia devono essere spazzate vie, insieme alle esperienze dolorose del nostro passato che mai, mai e poi mai, devono essere verbalizzate nella quotidianità perché “rovinano l’atmosfera”. Essere felici è diventato un obbligo morale e un’etichetta sociale.
Mi si obietterà che, al contrario, proprio in questo momento storico si parla abbondantemente di salute mentale, e questo è senz’altro vero. La verità è, però, che, chi dichiara un dolore (spesso in una vetrina pubblica) deve categorizzarlo come passato, risolvibile e, in nessun modo, influenzabile la positività del presente. La verità è che sono molto più numerose le app, i corsi, i guru e gli yes man che ti suggeriscono di essere grato alla vita tre ore al giorno, piuttosto che i supporti – veri – alle sofferenze – vere – della mente. La verità è che ci si destreggia tra chi ti incita alle good vibes e chi ti esclude, come se la tristezza fosse una colpa, per le bad vibes. La verità è che è inquietantemente usuale imbattersi in chi ti dice che non stai male, che non c’è nulla che non vada e che, anzi, devi essere ottimista, smetterla di vedere tutto nero e cambiare il tuo mindset (che odiosa parola).
Nessuno vuole essere un peso; e dal momento che invece, oggi, essere non felici (un’espressione non necessariamente corrispondente all’aggettivo tristi) significa occupare troppo spazio nelle stanze della buona maniera, la maggior parte di noi o semplicemente finge, o è portata a credere che la felicità è una meta raggiungibile se si compiono le giuste scelte.
Quest’ultima è una strada che conduce a una trappola persino più insidiosa delle conseguenze della finzione. Chi indossa sorrisi curvati verso l’alto dalle dite dell’ottimismo a tutti i costi, quando prova tristezza entra in un meccanismo di auto-colpevolizzazione, facendo ricadere su di sé, e sulla sua mancata capacità di guardare la vita a colori, le responsabilità del proprio dolore. Imboccare questa via verso un ideale preconfezionato ma senza consistenza significa imbattersi nella sopraffazione e nell’inadeguatezza; significa, nel peggiore dei casi, piombare nell’ansia e nella depressione. Significa ritrovarsi, come Tantalo, affamato davanti a un albero carico di frutta – ma di plastica. La felicità non è una condizione naturale e perenne degli esseri umani. È un momento. Perché la vita contiene inscindibilmente anche il dolore.
Negando quest’ultimo, sminuendolo, mortificandolo e ostracizzandolo dalla nostra mente come fosse un pensiero proibito al fine di far torreggiare l’idea (e non la sostanza) della felicità, ci precludiamo un singolare arricchimento: la possibilità di leggerci, leggendo la realtà; l’occasione di nuotare in profondità, guardando la superficie; l’opportunità di avere un distinguo per riconoscere i nostri desideri, tra la foschia creata dal chiacchiericcio di ciò che gli altri – compresa l’esistenza – decidono per noi. Perché – non dimentichiamolo – «le esperienze che contano sono spesso quelle che non avremmo mai voluto fare, non quelle che decidiamo di fare».