Gli europei sono sempre meno intelligenti?

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Gli europei sono sempre meno intelligenti?

Il declino nelle prestazioni cognitive è trasversale a tutte le fasce di età. Le cause sono tante ma non dobbiamo preoccuparci. Ecco perché.

«Quello che il 25% dei quattordicenni riusciva a fare in matematica e scienze nel 1994, oggi riesce a farlo solo il 5%», ha dichiarato il ricercatore neozelandese Michael Shayer, co-autore di un rapporto pubblicato qualche tempo fa sul periodico Intelligence. Shayer ha sottolineato che, a suo avviso, dal 1995 una «grande forza sociale (ovvero l’uso degli smartphone, ndr) ha interferito con lo sviluppo del pensiero nei bambini, in misura sempre maggiore ogni anno».
Lo studio condotto da Shayer fa previsioni allarmanti anche sui Paesi nordici: di questo passo, nel corso di una generazione (30 anni), «la Finlandia perderebbe 7,49 punti di QI (il quoziente intellettivo) complessivo, la Danimarca 6,48 punti e la Norvegia 6,50 punti».

Questo declino nelle prestazioni non riguarda solo gli adolescenti: purtroppo alcune rilevazioni sul Qi dei cittadini europei farebbero propendere per l’idea che il calo riguardi tutte le fasce di età, con differenze significative tra ieri e oggi. Uno studio del 2018, condotto da ricercatori norvegesi, ha scoperto che il QI degli adulti odierni è notevolmente inferiore rispetto a quello dei loro padri alla stessa età. Ole Rogeberg e Bernt Bratsberg, del Ragnar Frisch Center for Economic Research di Oslo, hanno analizzato i punteggi di un test del QI effettuato da oltre 730.000 norvegesi presentatisi per il servizio militare tra il 1970 e il 2009. Tali dati hanno trovato ulteriori conferme, fino alla scoperta desolante che da un anno all’altro il QI dei norvegesi diminuisce mediamente dello 0,25-0,50.

Altri studiosi ritengono che il declino sia iniziato addirittura dal 1975, quando si è fermato il lento aumento dell’intelligenza osservato per gran parte del XX secolo. In precedenza, infatti, al contrario l’intelligenza degli europei sarebbe aumentata di circa 3 punti percentuali in ogni decennio successivo alla Seconda guerra mondiale, secondo una tendenza nota come effetto Flynn, dal nome dello scienziato neozelandese che per primo ha enunciato questo trend.

Le ipotesi sul fenomeno

Ma quali possono essere le cause di questo recente declino cognitivo? «Se guardiamo unicamente ai dati, non c’è una spiegazione largamente condivisa e convincente sulle cause scatenanti di questo effetto», premette Stefano Cappa, professore di neuroscienze allo IUSS di Pavia e responsabile della ricerca clinica sulle demenze all’IRCCS Fondazione Mondino. Le ipotesi prevalenti chiamano in causa l’invecchiamento progressivo della popolazione europea, che quindi mediamente performa peggio nei test, o l’uso di droghe ricreative per alcune categorie di giovani.

Altre teorie diffuse riguardano l’impatto dell’inquinamento sul declino cognitivo delle persone in tarda età o il ricorso costante a protesi cognitive, ovvero a telefoni e tablet, che in realtà, più che instupidire, «porta a una variazione delle nostre capacità» chiarisce Cappa: «Per esempio, l’abitudine ai videogiochi aumenta la velocità di risposta agli stimoli e l’abilità di elaborare contemporaneamente più informazioni, diminuendo però in parallelo l’abitudine ad approfondire i concetti o l’ampiezza del vocabolario. E quanti di noi sanno ancora orientarsi leggendo una mappa cartacea anziché impostando il navigatore?» si chiede lo studioso. Ovvio che, se i test che misurano il QI valutano prestazioni che ormai non svolgiamo più, otteniamo punteggi più bassi.

Inoltre, a questa forma di inattualità delle misurazioni, si aggiunge il fatto che esistono molteplici forme di intelligenza, «di conseguenza le valutazioni imperniate solo su certi tipi di competenze risultano parziali e non adeguate al mutamento nel contesto culturale” rimarca Cappa, aggiungendo che “solo dopo aver ottenuto risultati da test più in linea con le capacità richieste dalla società contemporanea potremmo giungere a nuove e più valide conclusioni».

Possiamo tirare un respiro di sollievo, allora, senza temere per la nostra intelligenza? Nì. Alcuni fattori, come l’inquinamento e il mutamento di abitudini hanno un impatto chiaramente negativo sull’abilità di decifrare un testo e di ricordare. Tuttavia, sin da oggi, per mantenere in salute il cervello, abbiamo alcuni strumenti di prevenzione. Lo studio finlandese denominato FINGER, pubblicato dall’autorevole periodico Lancet nel 2015, ed effettuato su oltre 1000 persone, è stato il primo a dimostrare che una combinazione di esercizio fisico, allenamento cognitivo (per esempio tramite parole crociate, puzzle e sudoku), l’adozione di una dieta nordica (una versione della dieta mediterranea con più pesce, semi oleosi, e molta frutta e verdura) e il monitoraggio del rischio vascolare potrebbero essere la chiave per la prevenzione del declino cognitivo. Ora, in tutto il mondo, sono in corso studi che cercano di scoprire come i cambiamenti nello stile di vita possano ridurre il rischio di perdita di memoria. In attesa di conferme scientifiche, o dell’aggiornamento dei test per la misurazione del QI, tanto vale provare a seguire le indicazioni.

Mantovana, giornalista da oltre 15 anni in Mondadori, collabora a numerose riviste nazionali su temi di attualità e stili di vita. Ha collaborato a una monografia sul cinema di Steven Spielberg e curato la traduzione dall’inglese di un saggio sul Welfare State. ​