Esiste l’empatia digitale?
Per parlare di empatia nell’era digitale ti racconto una cosa che mi è successa la settimana scorsa, anzi in realtà mi è successa tante volte e credo valga lo stesso per te. E
Un italiano su sei è “climatariano”, ovvero ha cambiato il proprio regime alimentare per ridurre l’impatto ambientale. Come si innova uno dei settori più inquinanti al mondo.
L’88% degli italiani fa scelte sostenibili quando si tratta dell’acquisto di cibo e bevande. Questa è già una buona notizia. Ma la novità dell’anno è l’affermazione di una nuova categoria di consumatori: i “climatariani”. Secondo il rapporto Coop 2021 Economia, Consumi e stili di vita degli italiani di oggi e di domani, infatti, un connazionale su sei dichiara di aver cambiato il proprio regime alimentare in modo da ridurne l’impatto ambientale. Di che alimentazione si tratta? A filiera controllata e di produzione locale, con metodi di produzione rispettosi dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori, a base di proteine che limitano la generazione di Co2. Il cibo – come si produce, trasporta, consuma – è stato il grande assente negli accordi della Cop26, ma non sono pochi i dati che aiutano a inquadrare il tema. La base di partenza è questa: secondo la Fao, considerando le attuali tendenze relative al reddito, all’incremento della popolazione e ai consumi, entro il 2050 sarà necessario produrre circa il 70% di cibo in più per soddisfare la domanda globale. Di pari passo, gli ultimi dati, presentati proprio alla Cop26 di Glasgow, raccontano che il 31 per cento delle emissioni di gas serra generati dall’uomo derivano dal mondo dell’agroalimentare e, dei 16,5 miliardi di tonnellate di emissioni di gas a effetto serra dai sistemi agroalimentari globali totali nel 2019, 7,2 miliardi di tonnellate provenivano dalle aziende agricole, 3,5 dal cambio d’uso di suolo e 5,8 miliardi dai processi legati alla catena di approvvigionamento. Il report del WWF Un pianeta allevato, aggiunge un elemento in più: il 70% degli uccelli del pianeta è già pollame da allevamento, il 60% di tutti i mammiferi sulla Terra sono bovini e suini da allevamento (il 34 per cento sono esseri umani e solo il 4 per cento fauna selvatica). Solo gli allevamenti intensivi sono responsabili del 14,5% delle emissioni totali di gas serra, utilizzano circa il 20% delle terre emerse come pascolo e il 40% dei terreni coltivati per la produzione di mangimi. Un quarto delle terre emerse e senza ghiaccio del nostro Pianeta è già usato solo per nutrire gli animali di cui poi ci si ciba.
Come se ne esce? Il visionario designer Cyrill Gutsch, fondatore di Parley for the Oceans – il più grande network di pensatori, scienziati, leader di brand, governi e comunità a salvaguardia degli oceani – mi ha detto di recente in un’intervista: «Non dovremmo mai mettere in dubbio la nostra capacità di tirarci fuori dal problema che abbiamo creato. Credo sia questione di istinto di sopravvivenza – gli uomini lo affinano da millenni – che oggi ci spinge a trovare soluzioni e a lavorare insieme anche attraverso scienza e design, che sono connessi al nostro benessere».
In effetti è proprio quello che è successo negli ultimi dieci anni. Con due scuole di pensiero legate all’alimento che consuma più risorse, la carne di bovino in primis. Secondo un dettagliato articolo di Our World in data che calcola l’impatto ambientale del cibo di maggior consumo, questa tipologia guida la classifica con 98,48 kg di co2 emessa per chilo. Per fare qualche paragone, quella di maiale ne richiede 12,31 kg; quella di pollo 9,87; i piselli 0,98. Una delle strade è quella del vegetale, ovvero la realizzazione di ricette con un gusto simile – in alcuni casi inquietantemente simile – a quello della carne utilizzando un mix di legumi, proteine vegetali, aromi e coloranti naturali come la barbabietola e la leghemoglobina di soia. L’altra strada è quella del laboratorio, che parte da cellule staminali prelevate dal feto di un animale, senza macellazione, e coltivate in vitro fino ad assumere la forma di bistecche, fettine e altro.
L‘alternativa vegetale alla carne
Nel 2009 nasceva a Los Angeles Beyond Meat, che ha portato sul mercato i suoi primi prodotti nel 2012 e oggi commercializza burger, polpette, fettine, bocconcini vegetali 118mila supermercati e locali in oltre 80 Paesi nel mondo, Italia compresa. Il gusto, che deve essere il punto di partenza per far sì che un prodotto di questo tipo abbia successo, si avvicina moltissimo a quello della carne – detto da chi mangia carne – e, per fare un paragone diretto, un Beyond Burger genera il 90% in meno di emissioni di gas serra, richiede il 46% in meno di energia per essere prodotto, ha un impatto inferiore del 99% sui consumi d’acqua e del 93% in meno sull’uso del suolo rispetto a circa 100 grammi di carne bovina statunitense. A distanza di pochi anni, sempre in California, è arrivato il concorrente di sempre Impossible Foods, i cui prodotti sono al momento disponibili negli Stati Uniti, in Canada, Singapore e Hong Kong, negli Emirati Arabi Uniti, in Australia e Nuova Zelanda. A cascata sono arrivate la brasiliana Future Farm, fondata nel 2019 e presente in 24 Paesi fra cui l’Italia, e molti altri. Oggi si guarda con molto interesse a Novameat, la startup spagnola ma con un fondatore italiano (l’ingegnere biomedico Giuseppe Scionti) che ha inventato un modo per stampare in 3d un taglio di carne bovina (non era mai successo prima) per riprodurre una consistenza molto diversa dal macinato dei burger, simile a bistecche e fettine. Si parla di uno sbarco sul mercato verso la fine del 2022. E per chi vuole avere la soddisfazione di cucinare più di un semplice burger in padella? Ci h pensato l’azienda umbra Food Evolution della famiglia Musacchio, una delle prime ad aprire un ristorante vegetariano in Italia nel 1979, fondatrice del celebre e premiato Montali Vegetarian Country House, immerso in un uliveto a poca distanza dal lago Trasimeno.
È del 2019 il loro ingresso nel settore della grande distribuzione, con i dadini gusto pancetta, gli straccetti gusto pollo e lo spezzatino alle erbe, prodotti attraverso un impianto di estrusione unico in Italia, realizzato in collaborazione con l’Università di Wageningen. Si apre la strada a prodotti che sono più di un semplice piatto pronto, ma piuttosto ingredienti di partenza che permettono di essere combinati in varie ricette. Un’avvertenza, però: si tratta pur sempre di cibi processati che contengono molto sale, secondo uno studio che ha analizzato 207 prodotti a base di “carne” vegetale pubblicato a fine novembre 2021 sulla rivista scientifica Nutrients, che ne sottolinea il corretto profilo nutrizionale, ma al contempo invita i produttori ad abbassare le quantità di sodio.
C’è apertura in Italia verso questo tipo di prodotti. Il Rapporto Coop 2021 evidenzia una crescita del 25,8% dei prodotti vegani (in particolare quelli di nuova generazione come bevande, besciamelle, sughi e condimenti, con un + 44% di piatti pronti vegetali e prodotti con surgelati che sostituiscono proteine animali. Sempre secondo il rapporto, tra le new entry sulle tavole degli italiani nei prossimi 10 anni, ci sono cibo vegetali con il sapor di carne (33%), a base di alghe, farine d’insetti e semi iperproteici.
Tutt’altro capitolo è quello della carne no ogm, coltivata in laboratorio. La ricerca Coop 2021 la cita come uno degli alimenti del futuro (l’ha nominata il 22 per cento degli intervistati), ma un recente dossier presentato da Coldiretti e Ixè, in occasione dell’inaugurazione del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, racconta un’altra storia: Il 95 per cento degli italiani per il momento la boccia. Interrogati sui motivi, il 68% ha risposto che non si fida di alimenti non naturali, il 60% ha dubbi sul fatto che sia sicura per la salute, un 42% pensa che non avrà lo stesso sapore di quella vera e un 18% teme il suo impatto sull’ambiente e considera comunque non etico il ricorso alle cellule animali. Dati che vanno considerati alla luce della tendenza conservativa delle generazioni più anziane, predominanti nel nostro Paese, ma che sono comunque utili per analizzare alcune criticità di questo mercato altamente innovativo e ancora sperimentale. Un recente report di McKinsey suggerisce che, entro il 2030, la carne “coltivata” potrebbe fornire fino allo 0,5% dell’offerta mondiale, al contempo democratizzando ed espandendo il consumo di tagli considerati pregiati o di animali a rischio estinzione come la carne di Wagyu o di salmone selvatico.
Dallo sviluppo dei primi prototipi, circa 8 anni fa, i costi si sono ridotti del 99%: la prima polpetta di una delle aziende pioniere del settore, Memphis Meats oggi Upside Foods, nel 2016 aveva avuto un costo di produzione di 20mila dollari. A metà 2021 l’azienda, fondata dal cardiologo Uma Valeti che dal 2015 lavora per tradurre la sua intuizione di agricoltura cellulare in un nuovo modo di produrre la carne, ha presentato il suo primo petto di pollo prodotto da cellule di pollo e aperto un grande impianto di produzione a Emeryville, in California, per passare dal laboratorio alla scala industriale. Ed è di dicembre 2021 l’annuncio che Upside Foods è riuscita, per la prima volta, a produrre “l’ingrediente” di partenza delle sue cellule coltivate senza componenti animali (ovvero cellule rimosse da un feto bovino) solo attraverso la combinazione di acqua, zuccheri, proteine, aminoacidi, vitamine e fattori di crescita non di derivazione animale. Una scoperta dall’enorme valore scientifico che mette Upside Foods in pole position nel mercato, ma non è la sola: il report McKinsey evidenzia come oggi siano poco meno di 100 le startup e le aziende innovative impegnate sul campo, fra queste le israeliane Aleph Farm e Future Meat Technologies – in cui ha investito anche Nestlé e che nel 2021 ha inaugurato il primo stabilimento di produzione di carne di pollo, maiale e agnello – e l’olandese Mosa Meat. Il settore ha attratto investimenti per circa 350 milioni di dollari, di cui circa 250 milioni solo nel 2021, anche da alcuni dei più grandi player del settore delle proteine animali come la statunitense Tyson Foods e l’olandese Nutreco.
Se il progetto della carne “coltivata” dovesse riuscire a diventare scalabile, potrebbe fare la differenza su più fronti. Poiché l’origine è la stessa delle cellule animali, si otterrebbe il sapore esatto della carne tradizionale e come tale questa potrebbe essere usata in tutte le preparazioni. Se venisse realizzata utilizzando energia pulita – Aleph Meats ha l’obiettivo di diventare carbon neutral entro il 2025 e di rendere tale tutta la sua supply chain entro il 2030 – si ridurrebbe sensibilmente l’impronta di carbonio di uno dei settori più inquinanti al mondo, oltre ai consumi di suolo e acqua. Si potrebbero evitare i rischi per la salute connessi al consumo di carne da allevamento intensivo, piene di ormoni della crescita e di antibiotici, e tutti i problemi etici che questo porta con sé. Non resta che stare a vedere cosa accadrà, aprendosi senza preconcetti a quella che potrebbe essere una delle trasformazioni più rilevanti del nostro sistema produttivo, alimentare e sociale di cui essere più orgogliosi.