Automazione del lavoro: nuove professioni o estinzione dei lavoratori?

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Automazione del lavoro: nuove professioni o estinzione dei lavoratori?

Ci stiamo avviando verso una società post-lavoro, in cui intelligenze artificiali interattive e robot antropomorfi soppianteranno quasi completamente la forza lavoro umana nell’agricoltura, nell’industria e nei servizi. Ma sarà davvero così?

Più robot e meno essere umani sul lavoro? Per rispondere a queste domande, è innanzitutto opportuno sgombrare il campo dall’erroneo presupposto che tutti gli uomini si trovino nella medesima condizione e, perciò, le conseguenze saranno le stesse per tutti, nel bene o nel male. Navighiamo lo stesso mare ma non siamo sulla stessa barca. Rispettata questa condizione, si converrà che all’orizzonte non si prospetta un’utopia o una distopia, ma uno scenario complesso con diverse sfaccettature.

Si parla di solito di “umanità” in rapporto alla “tecnologia” e raramente si considera che esistono diverse realtà nazionali, caratterizzate da differenze culturali, stratificazioni sociali più o meno accentuate, peculiarità generazionali, maggiori o minori discriminazioni di genere e una varietà di sistemi politico-economici. Le classi sociali sono oggi e saranno anche in futuro affette in modo diverso dai cambiamenti. E all’interno delle classi, vario sarà il destino dei singoli individui, in virtù delle loro caratteristiche psicologiche e competenze professionali. Chi è maggiormente dotato d’intelligenza, iniziativa, intraprendenza, propensione allo studio e al cambiamento sarà avvantaggiato rispetto a chi tende ad assumere un atteggiamento passivo e rinunciatario.

Le professioni più a rischio

Per quanto riguarda le competenze, inoltre, è evidente che alcune professioni sono più a rischio di altre. Nell’ultimo quarto del XX secolo, i robot industriali hanno quasi interamente sostituito la classe operaia. Oggi, i nuovi modelli di intelligenza artificiale stanno togliendo lavoro a contabili, consulenti di vario tipo, impiegati con mansioni routinarie, operatori di call center, tassisti, grafici, traduttori e interpreti. Questa tendenza promette di accentuarsi in futuro. Meno suscettibili di automazione integrale – per lo meno nel breve-medio periodo – sono le professioni in cui il contatto umano è ritenuto fondamentale e, per le responsabilità che comportano, sono protette anche dall’impianto legislativo. Le operazioni chirurgiche sono ormai svolte da robot, ma è ancora prevista la presenza di un medico chirurgo in sala operatoria. Gli assistenti sociali che si occupano di orfani, poveri, disabili, malati e anziani, possono essere coadiuvati da macchine, ma non sostituiti. Lo stesso discorso vale per dentisti, psicologi, insegnanti, avvocati, giudici, educatori, piloti di aerei, farmacisti o fisioterapisti, per fare solo qualche esempio. In linea di principio, anche il lavoro di questi professionisti potrebbe essere automatizzato, ma la questione non è semplicemente tecnica. Mentre un imprenditore può, in qualunque momento, licenziare gli operatori del call center della sua azienda, un preside non può sostituire l’intero corpo docente con intelligenze artificiali. Per automatizzare le funzioni pubbliche e le professioni riconosciute è necessario un intervento del legislatore che non si prospetta per nulla semplice.

È chiaro, allora, che la rivoluzione tecnologica in atto avrà un impatto diverso sulle varie categorie professionali. Per qualcuno, l’automazione integrale sarà un’occasione di crescita, mentre per qualcun altro sarà un fattore di marginalizzazione. Ma quanto è plausibile l’ipotesi di una società senza lavoro o con poco lavoro? E come si può affrontare il problema qualora si presentasse? Gli esperti di futures studies lavorano sempre più spesso con modelli basati sull’analisi di scenario. Poiché nessuno ha la sfera di cristallo, si prendono in considerazione diversi mondi alternativi, o futuri possibili. Quello di una società senza o con poco lavoro è soltanto uno degli scenari plausibili. Va detto a chiare lettere che non c’è consenso tra gli economisti riguardo alla previsione di una disoccupazione tecnologica di massa, o comunque di livello critico.

Disoccupazione tecnologica

Per gli economisti della scuola neoclassica, la disoccupazione tecnologica non esiste, tanto che chiamano questa idea la “fallacia luddista”. In questa prospettiva, le rivoluzioni industriali – saremmo alla quarta secondo il World Economic Forum – cancellano alcune professioni e ne creano altre, sicché l’effetto finale è semplicemente uno spostamento della forza lavoro da un settore all’altro dell’economia. Di diverso avviso i keynesiani che, pur non disperando, ritengono necessario l’intervento dello Stato per assorbire la disoccupazione, attraverso la riduzione dell’orario di lavoro, la creazione di nuovi impieghi, la riqualificazione dei lavoratori e forme di sostegno ai disoccupati. Un’idea non nuova ma che da qualche anno trova sempre più sostenitori è l’istituzione di un reddito universale di base, cumulabile a quello percepito per lavori precari e saltuari che via via si presenteranno. Ipotizziamo che abbiano ragione i keynesiani e che i nuovi modelli di intelligenza artificiale tolgano davvero il lavoro a un numero talmente elevato di lavoratori nel settore dei servizi da generare una crisi socioeconomica importante. Considerando che i lavoratori coincidono con i consumatori, il reddito di base diventerebbe una soluzione immediata per tappare la falla e non fare avvitare il sistema su sé stesso. Persino Milton Friedman, che faceva parte della scuola neoclassica, nel 1969, affermò che ci sono momenti in cui è necessario ricorrere all’helicopter money, una colorita metafora in cui gli aiuti governativi sono immaginati come uno stormo di elicotteri che getta soldi nelle strade per evitare la trappola della liquidità e fare uscire il Paese dalla recessione.

Reddito universale

Paradossalmente, a invocare il reddito universale di base non sono tanto i disoccupati e i precari, quanto i miliardari della Silicon Valley che, evidentemente, valutano le potenzialità delle tecnologie che producono in modo più radicale rispetto all’uomo comune. Per chi ha una visione conservatrice della società, l’idea che i cittadini possano ottenere stabilmente un reddito senza lavorare, è una vera e propria assurdità. Esploriamo, allora, le ragioni di chi propone questa soluzione. Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, ha affermato che non solo sarà necessario erogare un reddito di base universale, ma dovrà essere un reddito alto. Bisogna capire, innanzitutto, che la proposta dei grandi capitalisti non è tanto ispirata da sentimenti umanitari, quanto dall’intento di salvare il sistema in cui prosperano. Facciamo due conti: lo stipendio mensile medio in Italia è di circa 2.300 euro lordi, ossia 1800 euro netti. Se milioni di lavoratori dovessero restare disoccupati, perché sostituiti dall’intelligenza artificiale, e dessimo loro 900 euro al mese per sopravvivere, crollerebbe il mercato interno e l’economia entrerebbe in una spirale recessiva. Per evitare questo scenario, si dovrebbe garantire pressappoco lo stesso livello di reddito. Poiché sarebbe un’ingiustizia dare lo stesso reddito a chi lavora e a chi non lavora, senza contare che questi ultimi probabilmente si licenzierebbero, l’alternativa è dare una somma minore a tutti, a chi lavora e a chi non lavora, calcolata in modo tale da garantire il livello dei consumi. Chi lavora vedrà migliorare il proprio tenore di vita perché accumulerà due redditi, chi non lavora potrà perlomeno sopravvivere e sarà incentivato a cercare altre forme di reddito.

Chi ritiene che la proposta dei grandi capitalisti americani sia assurda parte in genere da due postulati errati: il primo è che tutti debbano lavorare per vivere, il secondo è che, al netto del patrimonio esagerato di qualche magnate, la ricchezza sia equamente distribuita nel resto della popolazione. In realtà, da che mondo è mondo, c’è chi deve lavorare per vivere e chi vive di rendita, perché ha ereditato capitali o li ha accumulati in una prima fase della propria vita. In diversi Paesi occidentali, metà della popolazione lavora e l’altra metà è mantenuta dalla prima. Per esempio, gli Stati Uniti hanno 345 milioni di abitanti. La forza lavoro ammonta a 168 milioni di individui circa, meno della metà. Simile è la situazione dell’Italia e della Polonia. Naturalmente, nel calcolo non ci sono solo gli ereditieri, ma anche i bambini, i pensionati e chi vive di espedienti. Per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza, si deve considerare che è molto meno equa di quanto generalmente si pensi. Per esempio, negli Stati Uniti, circa il 10% degli americani detiene il 67% della ricchezza, l’1% possiede un terzo della ricchezza nazionale, l’0,1% dei cittadini possiede quasi un sesto della ricchezza. Se scendiamo negli strati più bassi della società, scopriamo che il 50% degli americani, che sono circa 173 milioni di cittadini, si dividono il 2,5% della ricchezza nazionale. Il patrimonio non è il reddito, ma, per chi non eredita capitali, il primo è un riflesso del secondo.

Una nuova architettura economica

Per farla breve, se – volendo esagerare – tutti i 168 milioni di lavoratori americani fossero sostituiti da robot e restassero disoccupati, erogare un reddito di base sarebbe fattibile, con una tassa ragionevole sui grandi patrimoni o ristrutturando la spesa pubblica. Si consideri che gli Stati Uniti investono quasi mille miliardi di dollari dei contribuenti nella spesa militare: sono circa 500 dollari al mese per ogni singolo lavoratore. Si parla anche di tassare le aziende robotizzate, ma il problema è che le grandi imprese europee e americane pagano ormai pochissime tasse, perché godono di agevolazioni o hanno trasferito la sede in paradisi fiscali. Anche questo è un problema da affrontare: il carico fiscale è ormai concentrato sulla classe media, sui lavoratori. Se questi svaniscono e devono essere mantenuti, anziché mantenere il resto della società, il sistema crolla. Il reddito di base universale non può certamente essere sostenuto dagli Stati finanziandosi su mercati secondari, perché il debito pubblico – non più adeguatamente sostenuto dalla tassazione della classe media – esploderebbe. Servirebbe, in poche parole, una nuova architettura del sistema economico: o si crea moneta che, inflazione permettendo, non entri nel calcolo del debito, o si vanno a tassare i grandi patrimoni e i grandi redditi come si faceva prima della svolta neoliberista.

Tuttavia, come ho premesso, si tratta di uno scenario che potrebbe anche non verificarsi. Potrebbero, infatti, nascere nuove professioni, nuovi lavori che le macchine non sono in grado di eseguire e che ora non riusciamo ancora a immaginare.

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Sociologo, filosofo della tecnologia e studioso del futuro, docente all’Università Jagellonica di Cracovia.