Quanto vale oggi la felicità?

Society 3.0


Quanto vale oggi la felicità?

Dopo gli anni della pandemia e l’inizio della guerra in Ucraina, la soddisfazione personale è al centro di fenomeni sociali che stanno modificando il rapporto tra vita, lavoro, scelte personali ed economia globale.

Reddito e felicità, disponibilità economica e benessere personale. È sempre più problematica la correlazione tra questi elementi, tanto che è ormai fervido il dibattito sull’eventualità di superare il PIL come unica misura del benessere di una società. No, i soldi non fanno la felicità, o almeno non la fanno solo loro.

Richard Ainley Easterlin è un novantaseienne professore universitario americano che nel 1974 si preoccupò di studiare proprio la relazione tra la felicità e la ricchezza. Ne venne fuori quello che in economia è noto come Paradosso di Easterlin, ovvero il fatto che la felicità umana aumenti all’aumentare della ricchezza disponibile, ma solo fino a un certo punto, giacché poi la curva comincia a scendere indipendentemente dalla crescita del reddito.

«Guadagnare di più significa essere più felici, ma solo se si hanno serie difficoltà economiche, salendo di status non abbiamo una correlazione netta tra queste due dimensioni perché intervengono altri fattori che trascendono il reddito», osserva Stefano Bartolini docente di Economia politica e sociale presso l’Università di Siena.

«La felicità è relazionale. Viviamo in una società sempre più ricca dal punto di vista materiale, ma depauperata dal punto di vista delle relazioni. Pensiamo ai giovani che si rinchiudono nel mondo virtuale, o all’assenza di reti sociali di molte comunità di anziani. Senza relazioni c’è solitudine, che è ormai considerata un fattore di rischio anche per la nostra salute».

Lo stesso Easterlin, infatti, sintetizzò la felicità con una formula matematica F=f(I,R) dove F sta per felicità, funzione di due dimensioni quali la ricchezza materiale (I) e quella relazionale (R). Sempre l’economista californiano, inoltre, si occupò di spiegare il paradosso ricorrendo all’effetto “treadmill” (tapis roulant) che renderebbe ciascuno di noi insoddisfatto perché alla perenne ricerca di qualcosa di meglio da acquistare, di uno status sociale migliore da raggiungere, o di una posizione migliore da occupare rispetto alle persone con cui ci confrontiamo.

«Questi effetti spiegano un altro paradosso – aggiunge il Prof. Bartolini – ovvero quello che vede l’infelicità come elemento positivo dal punto di vista economico e dei consumi. Una persona infelice, sola, insicura tende infatti a rifugiarsi in acquisti di comfort e di status che diventano rifugi rassicuranti, verso cui ci si spinge con l’illusione di offrire una ricompensa al proprio malessere».

Ma come misuriamo la felicità? Il punto è dirimente perché alla base dei tanti tentativi di andare oltre al PIL (FIL, BES, Better Life Index, ecc…) c’è proprio l’idea di offrire al benessere personale una dimensione quantitativa.

«La felicità è misurabile secondo due dimensioni: quelle oggettive, che si basano per esempio sui dati di vendita degli psicofarmaci, sulla diffusione di patologie depressive o su altri indicatori come il numero di suicidi e quelle soggettive che si basano sulle interviste qualitative ai cittadini volte a valutare il loro stato di benessere personale».

Ma proprio su quest’ultimo aspetto insiste una delle teorie più note dell’economista Amarthya Sen: quella della “Felicità dello schiavo”. Secondo questo paradosso alcuni individui sono talmente privati dei diritti basilari da non anelare condizioni di vita migliori, ritenendosi perciò felici o soddisfatti della loro pur infima condizione. Una situazione che andrebbe a inficiare la misurabilità stessa del concetto di felicità. «Ma lo schiavo di Sen è un’astrazione che non esiste in realtà», osserva il Prof. Bartolini secondo cui, aldilà della lunga e storica dissertazione filosofica, «il concetto di felicità è legato a quello di libertà di poter scegliere la propria vita e alla percezione di sentirsi padrone del proprio destino».

A questo punto occorre però soffermarci sull’impatto che i due anni di pandemia hanno avuto sulla percezione della nostra felicità. Secondo l’ultimo World Happiness Report di Gallup, nonostante la pandemia e le tante avversità sociali ed economiche connesse il livello di soddisfazione di vita auto-dichiarata in 95 paesi è rimasto costante con il 56% della popolazione mondiale che si dichiara “piuttosto o molto felice”. Nella speciale classifica tra le nazioni anche l’Italia ha migliorato il proprio ranking passando dalla 28esima alla 25esima posizione. Come è possibile una tale resilienza del livello di felicità dichiarato?

«Innanzitutto» risponde il Prof. Bartolini, «bisogna dire che questi dati sono ancora molto freschi e vanno consolidati nel tempo e poi occorre sottolineare che ci sono evidenze che attengono a specifici gruppi (bambini, giovani, precari) che invece hanno subito notevolmente il contraccolpo del Covid-19 e delle sue limitazioni (Dad, limitazioni alla mobilità e isolamento sociale). La mia impressione personale è che comunque la pandemia abbia anche prodotto un effetto positivo sul grado di felicità delle persone che hanno ritrovato il proprio tempo, ricostruito le proprie relazioni famigliari, riscoprendo, insomma, quell’aspetto relazionale alla base della felicità».

Una nuova presa di coscienza dell’importanza del proprio tempo libero che potrebbe essere alla base anche del fenomeno che negli USA hanno chiamato The Great Resignation (La grande dimissione volontaria) che ha visto nel 2021 circa 5 milioni di americani lasciare il proprio posto di lavoro. In Italia, dove il mercato del lavoro offre meno opportunità, si sono comunque registrati nel 2021 800mila abbandoni del lavoro in più rispetto agli anni precedenti.

Anche questo fenomeno potrebbe essere dovuto alla scoperta negli anni della pandemia dell’importanza di fattori extra-reddito e più attinenti alla soddisfazione personale ed ecco perché da più parti è partita una riflessione non solo sull’opportunità di favorire lo smart working, ma anche di limitare i giorni lavorativi. Riflessioni ed esperimenti sostenuti anche dai dati, come quelli che arrivano dal Nord Europa, che testimoniano come più si è felici e più si produce. Ecco perché la felicità è sempre più anche un fatto economico.

Giornalista, pugliese e adottato da Roma. Nel campo della comunicazione ha praticamente fatto di tutto: dalle media relations al giornalismo. Brand Journalist e conduttore radiofonico, si occupa prevalentemente di economia, energia ed innovazione. Oltre la radio ama la storia e la politica estera.