La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Nato dopo la Grande Crisi del 1929, il Prodotto Interno Lordo è ancor’oggi l’indice-guida per capire lo stato economico delle Nazioni. Ecco perché nonostante i tanti tentativi di superarlo il PIL rimane ancora in auge.
«Il benessere di una nazione non si può dedurre da una misura del reddito nazionale». A pronunciare questa frase non è stato un acerrimo critico del modello capitalistico, ma Simon Kuznets, niente poco di meno che l’inventore di quel numero magico, il PIL, valore-guida delle contabilità nazionali. All’indomani della Grande Crisi del 1929, l’economista bielorusso, fuggito negli USA dopo la Rivoluzione Bolscevica, fu incaricato di trovare un sistema di calcolo efficiente e descrittivo dello stato di salute economico della nazione. Presentato da Kuznets al Congresso nel 1934, il PIL piacque tantissimo agli economisti di Roosevelt, tanto da imporsi come coefficiente-guida del suo New Deal, prima di estendersi a livello internazionale dopo gli accordi di Bretton Woods e la nascita della Banca Mondiale e dell’FMI.
Ma cos’è in definitiva il PIL? Stando ai manuali di macroeconomia il PIL è “il valore dei prodotti e servizi realizzati all’interno di uno Stato sovrano in un determinato arco di tempo”. Molto più di un numero, molto altro rispetto a un mero indice, il PIL è una vera e propria chiave di lettura delle condizioni economiche degli Stati. Ma può questo numero descrivere e indicare il benessere di una nazione? Stefano Bartolini insegna Economia politica e sociale presso la Facoltà di Economia dell’Università di Siena e a Changes spiega: “Il PIL misura tutto quello che viene prodotto in un’economia e in sostanza conta i soldi, calcolando quello che si può comprare o vendere. Sarebbe una buona misura di benessere se presupponessimo che tutto quello che conta nella vita si possa comprare”. Ma ovviamente così non è.
Il PIL è la storia di tanti paradossi. «Più produciamo, più inquiniamo e di certo un ambiente inquinato non aiuta il benessere», ci dice il prof. Stefano Bartolini che poi aggiunge: «Il PIL non riesce a misurare un aspetto fondamentale: quello delle relazioni tra le persone». Secondo uno studio Eurostat del 2015, il 13,5% degli italiani dichiarava di non avere nessuno su cui contare nei momenti di difficoltà e secondo il Rapporto Annuale Istat 2018, circa 3 milioni di italiani non hanno una rete di amici. «La solitudine è un problema di massa ed è intesa ormai come un fattore di rischio per la salute – avverte il prof. Bartolini – eppure il PIL questo non lo misura, anzi. Un cittadino malato usufruisce di servizi sanitari e questa spesa concorre all’aumento del PIL». In tal senso è celebre il discorso del Senatore Bob Kennedy: «Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago». Era il 1968 e da allora sono stati tanti i tentativi di andare oltre il PIL.
Il piccolo Regno del Bhutan calcola ad esempio il FIL, la Felicità Interna Lorda, che cerca di considerare in un indice il benessere psicologico, la salute, l’ambiente, la biodiversità e la vitalità. In Europa, invece, si impose al centro del dibattito internazionale il tentativo della Francia dove nel 2009 l’allora presidente Nicolas Sarkozy affidò ai tre economisti Premi Nobel Amartya Sen, Jean-Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz lo studio di un modo per superare la centralità del PIL nelle economie mondiali. Ne vennero fuori dodici raccomandazioni tra cui: «Bisogna mettere l’accento sul punto di vista delle famiglie; considerare gli aspetti distributivi di reddito; misurare salute, istruzione e condizioni ambientali delle persone; conoscere la valutazione che ognuno dà alla sua vita; stimare il danno ambientale».
A dar seguito alle indicazioni dei tre Nobel fu nel 2011 l’OCSE che lanciò il Better Life Index, un indice in cui i paesi sono valutati in base a 11 dimensioni: dalle condizioni abitative, alla salute, dalla sicurezza all’ambiente, dal livello di felicità all’istruzione. L’indice non rilascia alcuna classifica generale, ma ciascun utente può osservare le graduatorie in base alle dimensioni che ritiene più significative. Nel 2020 l’Italia si classificava diciassettesima su 40 nella graduatoria in base al reddito, mentre scendeva al ventottesimo posto per “soddisfazione della vita”.
In Italia l’ISTAT nel 2010 ha lanciato l’indice “Benessere Equo e Sostenibile” (BES) che ha “l’obiettivo di valutare il progresso della società non soltanto dal punto di vista economico, ma anche sociale e ambientale”. Anche l’ISTAT prende in esame 12 domini fondamentali e dal 2016, il BES è inserito all’interno del Documento Economico e Finanziario annuale, alla base delle Leggi di Bilancio.
Anche le Nazioni Unite nel 2016 sono scese in campo per misurare il benessere collettivo, lanciando nell’Agenda 2030 gli ormai noti 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) ed è di questi mesi la notizia che sempre l’ONU ha ideato un nuovo sistema di calcolo della ricchezza che include il rispetto dell’ambiente e quindi la dimensione della sostenibilità. Si chiama Seea (System of Environmental Economic Accounting).
Ma come mai nonostante tutti questi tentativi, il Prodotto Interno Lordo rimane ancora l’indice più seguito? «Il motivo – sottolinea sempre il prof. Bartolini – è legato alla sua univocità e semplicità, ma anche al senso che diamo alla vita in Occidente dove l’dea di felicità e connaturata a quella di consumo». Dobbiamo quindi rassegnarci allo strapotere del PIL, giacché al capitalismo interessa il mero reddito? «Nient’affatto. Esistono tanti capitalismi e tante sue forme correttive: pensiamo ai nostri distretti industriali o al modello cooperativo che in Italia ha una storia plurisecolare. Purtroppo, negli anni ad imporsi anche da noi è stato un capitalismo di stampo anglosassone». Il rischio insomma è quello che l’obiettivo di superare il PIL rimanga un cruccio da accademici. Eppure, a sentire il Prof. Bartolini, una speranza c’è e sono i giovani. «Negli occhi abbiamo ancora il movimento Friday for Future ed oggi i ragazzi vivono in un mondo in cui dal possesso si è passati alla condivisione e l’attenzione alla sostenibilità è sempre crescente. Tutto questo sarebbe davvero rivoluzionario, se solo i ragazzi trovassero il modo di organizzarsi, come è avvenuto per i corpi intermedi del Novecento in altre battaglie civili e sociali».