L’importanza di cambiare strada

Lorenzo Cogo, Alberto Dalmasso e Matteo Franceschetti hanno in comune una cosa, anzi due: il fatto di essere tutti e tre Millenials così come la loro storia professionale di rinas
Il genere musicale più discusso dell’ultimo decennio vive una parabola discendente dal punto di vista artistico. Quali sono le ragioni della crisi e perché è impossibile cambiare strada.
La trap è in declino? La domanda è legittima, anche se forse un po’ anacronistica. Nel senso che il dubbio che uno dei generi musicali dominanti – e più discussi – dell’ultimo decennio avesse imboccato, almeno dal punto di vista artistico se non proprio da quello commerciale, una parabola discendente non è cosa di oggi. Già da alcuni anni chi segue più attentamente le vicende della musica pop si è accorto che, nonostante i numeri e la cosiddetta “hype” fossero sempre dalla sua parte, la trap avesse esaurito le sue potenzialità di rinnovamento. Ora però, con il consueto ritardo fisiologico, la questione serpeggia anche nel mondo dell’informazione mainstream e presso il grande pubblico, gli stessi che avevano creato lo “spauracchio trap” amplificandone fino al parossismo le poche virtù e i tanti vizi. Una ossessione che, in Italia, ha toccato l’apice alla fine del 2018 dopo la tragedia della discoteca Lanterna Azzurra di Corinaldo dove, in un locale affollato ben oltre la capienza consentita, morirono sei persone per il cedimento di un ponte prima dell’esibizione di Sfera Ebbasta, uno dei più famosi trapper italiani.
La trap ha ormai una lunga storia alle spalle. Nata tra il finire degli anni 90 e i primi anni Zero, sviluppatasi negli anni Dieci e diventata prepotentemente di successo a partire dal 2016, viene da molti confusa con il rap in generale, del quale è in realtà è una diramazione e un sottogenere. Una delle principali differenze, tanto per cominciare, è che i trapper spesso cantano (o almeno ci provano) invece di rappare. Ci sono peraltro state infinite altre ibridazioni e mescolanze nel corso degli anni con altre correnti musicali – dance elettronica, dubstep, drill e così via – ma senza volersi addentrare in distinzioni da specialisti resta il fatto che “trap” è un termine diventato onnicomprensivo e ormai piuttosto vago. La parola fa riferimento alle “trap houses”, ossia squat o edifici fatiscenti e abbandonati delle periferie delle metropoli americane (in particolare Atlanta, riconosciuto luogo d’origine del suono trap) nei quali si producono, si spacciano e si consumano droghe sintetiche. Non si tratta solo di una suggestione narrativa: alcune organizzazioni criminali di Atlanta riciclarono i proventi del traffico di stupefacenti proprio in etichette discografiche e case di produzione dedite alla popolarizzazione di questa evoluzione dell’hip hop. Da un lato si ripulivano i soldi, dall’altro si propagandava, sul crinale scivoloso tra descrizione ed esaltazione, uno stile di vita da narcotrafficanti.
Le origini “problematiche” non hanno impedito alla trap di diventare il suono che ha dominato gli ultimi dieci anni, sfondando i confini con il mainstream. Anzi, diventando il mainstream e influenzando anche le produzioni di pop star come Cardi B, Ariana Grande, Madonna, Lady Gaga, Beyoncé, Drake, Lana Del Rey e molti altri. Un suono caratterizzato da ritmi cupi, sintetici e ossessivi, prodotti quasi sempre con campionamenti della drum machine Roland 808, bassi distorti e un utilizzo smodato di AutoTune. I testi, così come la musica, sono minimalisti e ripetitivi, anche se spesso incomprensibili sia per la distorsione sulla voce sia per l’abitudine di mugugnare in modo strascicato le parole (un po’ per vezzo stilistico, un po’ per gli effetti del drink preferito dai trapper della prima ora, un mix di codeina e succo di frutta).
In Italia la trap è esplosa alla metà degli anni Dieci, propagandosi dalle periferie fino al Festival di Sanremo. Una tendenza musicale che ha letteralmente divorato il pop di largo consumo, perfetta per l’era di TikTok e dello streaming. Diventando il suono preferito della Generazione Z e allo stesso tempo, nel modo come sempre confuso e allarmistico con cui l’opinione pubblica maneggia i fenomeni nuovi e controversi, il pericolo e il modello negativo per eccellenza contro cui lanciare strali e preoccupate analisi sociologiche. Niente di molto diverso da ciò che accadeva cinquant’anni fa con il punk o sessant’anni fa con il rock’n’roll. Con la differenza che la trap molto probabilmente non genererà, al contrario del rock’n’roll e del punk, nessuna eredità culturale che vada al di là di sé stessa. E questo è il primo motivo per cui si incomincia – ma il processo in realtà è iniziato da tempo – ad avvertirne segnali di declino. Si tratta di un genere estremamente ripetitivo, il cui minimalismo programmatico (nei suoni così come nelle parole) è diventato ben presto la scusa per una povertà espressiva desolante. Sempre gli stessi ritmi, gli stessi beat, gli stessi biascicamenti al microfono. A stupire, in effetti, è proprio come un formato così poco plastico e così monotono abbia potuto resistere per così tanto tempo in cima alle preferenze degli ascoltatori. La dimostrazione tangibile, da questo punto di vista, di quel rifiuto della complessità riguardo anche ai consumi culturali che costituisce un dato evidente della contemporaneità. Ma l’effetto saturazione arriva per tutti, prima o poi, e la trap non fa eccezione.
E questo vale anche per i temi (parola grossa) delle canzoni e per gli atteggiamenti delle star del genere. Soprattutto per quanto riguarda l’Italia, in cui la trasposizione acritica e provinciale del modello americano, eticamente già non encomiabile di suo, ha innescato una proliferazione di “trapperini” che hanno magnificato l’edonismo, il successo, i soldi facili, le pose e gli atteggiamenti pseudo-criminali da ras del quartiere. Con contorno, spesso, di sessismo, machismo ed evocazioni di una violenza forse solo fumettistica ma non per questo meno disturbante. Al contrario del rap degli anni 90, neanche l’ombra di una qualunque pulsione politica o sociale. Ci sono delle eccezioni, naturalmente (un personaggio interessante e per nulla banale come Ghali viene dal mondo trap, per fare un esempio), ma l’archetipo per molti è sempre rimasto quello, in versione casereccia e fortunatamente meno pericolosa, della Black Mafia Family di Atlanta.
Un immaginario che sugli adolescenti ha indubbiamente una certa presa. Il fatto è che poi gli adolescenti crescono, e anche la generazione Z sta entrando nella maturità. D’altra parte, sono gli stessi protagonisti della scena a dimostrare di essere i primi a non confidare troppo nel futuro della trap. In molti, infatti, sono passati a fare tutt’altro genere di cose, reinventandosi in un’ottica più pop. Un esempio? Il famigerato e temutissimo Tony Effe, che con la Dark Polo Gang è stato uno dei nomi più di successo della trap italiana. Arrivato sul palco di Sanremo, si è presentato con uno innocuo stornello alla Franco Califano.