Chi abiterà il mondo di domani?
Uno studio recentemente pubblicato nei Proceedings of the National Academy of Sciences, tra le più autorevoli pubblicazioni scientifiche statunitensi, ha previsto come cambieranno
Nell’interminabile dibattito sui danni subiti dalla cultura nella rivoluzione digitale e tecnologica, è necessario proporre soluzioni affinché la tecnologia diventi uno strumento culturale.
«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?» – domanda Tancredi al Principe di Salina nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. È un momento memorabile del romanzo, in cui si comunica l’idea di una società immutabile e intrinsecamente resistente al cambiamento: l’unico modo per poter ostacolare il pericolo di una radicale trasformazione è fingere di accoglierla, agendo in modo da ostacolarla e rovesciarla.
Si sa: difronte alle rivoluzioni ci siamo spesso arroccati nel gattopardismo (la lingua italiana è meravigliosa); e lo stiamo facendo anche con la rivoluzione tecnologica: facendo parte delle precedenti generazioni, ci adattiamo a questa nuova realtà simulando di esserne promotori, ma tentiamo di conservare i nostri “poteri” o “privilegi” da nativi non digitali.
L’esponenziale sviluppo tecnologico agisce sulle nostre abitudini, ridisegna le nostre strutture sociali e modifica i modi e gli strumenti di produzione e di consumo, in ogni ambito. Malgrado lo scetticismo, chiunque è costretto ad accogliere il digitale nella propria esistenza: il contrappasso – paradossalmente – è l’esclusione dalla realtà. C’è però uno spazio che persino i meno afflitti da forme di gattopardite tendono a preservare dall’opera della rivoluzione tecnologica – rappresentando, almeno nell’immaginario collettivo, quanto di più ossimorico esista rispetto al digitale: la cultura. La sacra e inviolabile cultura.
Proviamo ad affrontare questo argomento insidioso (che frequentemente si traduce in stereotipi o semplificazioni) partendo da un presupposto: la necessità di una relazione tra cultura e tecnologia è indubbia; ed è impossibile, se non anacronistico, tenere separati i due campi. Difatti, la rivoluzione digitale ha già profondamente influito nella ridefinizione degli obiettivi e dei linguaggi del settore, ponendosi come fulcro o finalità dell’intero discorso culturale.
Dovremmo innanzitutto accogliere questa unione riflettendo sull’etimologia stessa del termine tecnologia, un «discorso sull’arte». Esiste infatti una relazione tra arte e tecnica che ne sancisce la reciprocità: in greco antico, la parola téchne ricopriva entrambi i concetti; e indicava la capacità di operare per raggiungere un determinato fine, fosse anche quello di dipingere. La forbice si è però allargata e il termine tecnica ha accolto gradualmente in sé la sola abilità pratica, basata sull’esperienza conoscitiva. Ciò ha inevitabilmente generato una controversia nella filosofia dell’arte: la tecnica dev’essere considerata una condizione necessaria alla realizzazione artistica o solo uno strumento asservito all’ispirazione?
Oltre all’origine dell’unione, ci è utile questo conseguente dilemma – considerato che, per la rivoluzione in corso e l’inevitabile accostamento tra cultura e tecnologia, ne sta emergendo uno simile, ma di natura etica: oggi, la tecnologia deve rappresentare il presupposto per l’esistenza e la diffusione della cultura o fungere da suo strumento? Accostando ripetutamente l’aggettivo “digitale” a gallerie, biblioteche, libri, archivi o musei, la realtà sembra parlarci di una cultura ormai asservita alla tecnologia, a tal punto da averle assegnato il ruolo di canale privilegiato, o unico, dell’esperienza intellettuale. Difronte a questo scenario, potremmo – ancora una volta – rinchiuderci in una forma di gattopardismo; oppure invertire la prospettiva, preservando la tradizione nella (e non contro) innovazione. Il patrimonio culturale non dev’essere difeso isolando o svalutando la portata dei fenomeni epocali in corso, ma accettando il ruolo abilitante della tecnologia e del digitale per l’intero settore. Dunque, rispondendo al quesito: la tecnologia deve fungere da strumento per la cultura; e il digitale deve porsi al servizio del reale.
Contro la pervasiva tendenza alla dematerializzazione, la tecnologia dev’essere usata per materializzare beni e prodotti culturali che si sono smaterializzati nella nostra memoria (ad esempio, con la digitalizzazione del patrimonio culturale; ma anche con esperienze immersive e digital exhibitions in luoghi dimenticati di rilevanza storia); o nella nostra realtà (droni per la ricostruzione e il monitoraggio dei siti; restauri digitali di patrimoni perduti). Contro il consumo riduttivo e acritico dell’arte, la tecnologia deve agire affinché l’esperienza culturale non sia consumata, ma vissuta: orientarne la riscoperta (con la realtà aumentata; con uno storytelling multisensoriale), o condividerne e renderne accessibile la conoscenza (ad esempio, con app; ma anche – prese le dovute cautele – con l’influencer marketing). Contro la logica che spesso la domina, basata sulla subordinazione dell’esperienza alla sua sola rappresentazione (vedi i social), la tecnologia, con l’immediatezza e la capacità di suggestione che la caratterizza, deve potenziare e illuminare una realtà culturale esistente, ma spesso nascosta. L’informazione non deve però mai sostituirsi alla comprensione, e la semplificazione non deve mai danneggiare la complessità.
Se nulla può sostituire l’esperienza del corpo a corpo con l’opera e con la sacralità dei suoi significati (e io, insieme a molti altri, ne sono convinto), bisogna assegnare alla tecnologia il compito di mediare questo incontro; di inserire, con l’innovazione, un cambiamento nella tradizione. Dunque, «noi fummo i Gattopardi»; ma possiamo aver diritto di continuare «a crederci il sale della terra» solo camminando a favore del cambiamento: è l’unica soluzione «se vogliamo che tutto rimanga come è».