La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Negli ultimi anni si è imposta una neolingua che continuamente rigenera sé stessa con nuovi termini, tecnicismi, modi di dire, frasi fatte che in fin dei conti raccontano sempre la stessa storia.
Siamo al sesto minuto del secondo tempo supplementare della partita di calcio leggendaria per antonomasia: Italia-Germania, semifinale dei Mondiali messicani del 1970. I tedeschi hanno appena segnato il goal del 3-3 ma nel giro di un minuto gli azzurri si riportano in vantaggio. Ecco come il telecronista Nando Martellini racconta così l’azione: «Boninsegna ha superato un avversario, passaggio a Rivera, rete. Che meravigliosa partita, ascoltatori italiani». In sottofondo si sente l’urlo di un tecnico della RAI: «Vinciamo, vinciamo!». Proviamo a immaginare come un momento epico come questo potrebbe essere commentato in una qualunque telecronaca di oggi.
Più di mezzo secolo dopo il modello non è più lo stile compassato, sobrio, descrittivo e appena venato di ingenua retorica di Martellini, quanto l’urlo in sottofondo. Ma senza l’innocenza e la spontaneità di quel: «Vinciamo!». Quel goal di Rivera verrebbe sotterrato dall’enfasi di frasi roboanti, esultanze scomposte a due voci (telecronista e commentatore tecnico), così come l’azione che lo ha generato – un giocatore che fa un passaggio a un altro che tira in porta – sarebbe infarcita di termini come: «Creazione di superiorità numerica», oppure «In-the-box», o anche «Tap in».
Come qualunque altro fenomeno culturale, anche il calcio è soggetto a un inevitabile rinnovamento della sua narrazione e del suo vocabolario. In questo non ci sarebbe nulla di cui stupirsi. Ciò che lascia spiazzati – un po’ come avvenne al portiere tedesco a causa dalla finta di Rivera – gli appassionati di una certa età, ma non solo, è la velocità sempre più vertiginosa con cui il lessico e lo storytelling calcistico stanno cambiando.
Negli ultimi anni si è imposta una neolingua che continuamente rigenera sé stessa, con il susseguirsi di sempre nuovi termini, nuovi tecnicismi, nuovi modi di dire, nuove frasi fatte che in fin dei conti raccontano sempre la stessa storia. Chi per abitudine è ancora fermo a termini come “terzino”, “stopper”, “ala”, “esterni”, “traversone” deve fare un certo sforzo per orientarsi tra i vari “braccetti”, “sottopunta”, “blocco basso”, “terzo uomo” (che è un giocatore, da non confondere con il quarto che invece è un aiutante dell’arbitro), “i quinti”, “castello” così via. Quello che una volta si definiva squilibrio tecnico tra una squadra più forte e una più debole è diventato il “mismatch”, la corsa palla al piede da un’area all’altra è un “coast to coast”, mentre il buon vecchio “catenaccio” (tutti in difesa a fare muro) si è trasformato in un più pudico ed eufemistico “fare densità”. Allo stesso tempo, lo stile e il tono delle telecronache diventano sempre più esagerati, magniloquenti, tanto più ampollosi quanto più cercano di spacciarsi per gergali e vicini al parlato comune, quando in realtà è spesso quest’ultimo ad introiettare il vocabolario calcistico.
Si dice spesso che il calcio sia in qualche modo un’epica. Come tale ha sempre poggiato sulla narrazione. Anzi, la narrazione ne è parte fondamentale. È interessante notare come questa si sia modificata con l’avvicendarsi dei media sui quali si propaga. Dai giornali alla radio (mezzi che non presupponevano la visione dello spettatore, e quindi per forza di cose costretti a un racconto lineare, chiaro, sintetico), dalla televisione generalista a quella commerciale, per arrivare alle pay-per-view e alle piattaforme che oggi detengono il monopolio dello spettacolo calcistico. A ciò si accompagnano le trasformazioni tecnologiche e sociali, oltre ovviamente a quelle del calcio stesso. Un fenomeno che negli ultimi decenni ha occupato tutti gli spazi disponibili con la moltiplicazione all’infinito delle partite, e che di conseguenza ha l’esigenza di mantenere vivo l’interesse del pubblico, evitando l’effetto saturazione, introducendo anche dal punto di vista linguistico innovazioni che trasmettano un senso di contemporaneità in continua evoluzione. Con risultati a volte grotteschi.
Il sistema-calcio, un tempo connotato da una certa rigidità nei confronti del cambiamento e tutto sommato orgoglioso dei suoi cicli e dei suoi riti immutabili ai quali il tifoso si affezionava, come hanno insegnato romanzi quali Febbre a 90 di Nick Hornby, si è progressivamente allineato al modello degli sport professionistici americani. Da qui deriva anche l’abuso di un linguaggio sempre più tecnico o tecnicistico – qualcuno lo ha definito addirittura “tecnocratico” – abbinato a formule quasi sempre in inglese che fanno impallidire il ricordo degli innocui “dribbling” e “tackle” di una volta. La ossessiva attenzione per la tattica ha ridotto le individualità dei singoli giocatori a funzioni geometriche all’interno di schemi, o se si preferisce l’analogia a figurine della Playstation. Il gaming, del resto, è un altro potente fattore culturale che ha inciso sull’immaginario calcistico e anche il modo di raccontarne le azioni e i movimenti ne è influenzato.
Ciò che ne scaturisce è quindi un vocabolario zeppo di anglismi, frasi stentoree e formule al limite dell’esoterico per chi non è un iper-conoscitore della grammatica calcistica. Le trasformazioni lessicali in fondo sono sempre un segnale di quelle sociali. Il linguaggio odierno del football nasce già pronto per i social, gli hashtag e i meme che dominano il registro della comunicazione, laddove una certa pittoresca fraseologia di una volta – quando i rinvii approssimativi di un difensore venivano definiti “alla viva il parroco” – ci parlava delle abitudini di un’Italia popolare ormai scomparsa. Qualche esempio sopravvive ancora oggi, a dire la verità, come il famoso “a corto muso” utilizzato per indicare vittorie ottenute a denti stretti introdotto dall’ex allenatore della Juventus Massimiliano Allegri, evidentemente appassionato di ippica. Ma sono eccezioni. L’impressione è che questo gramelot calcistico in perenne mutamento venga in realtà calato dall’alto, quasi con una funzione pedagogica. Quando, invece, nei tempi passati entrava a poco a poco nella vulgata popolare, grazie spesso alle invenzioni di grandi giornalisti sportivi come Gianni Brera. Che è colui che definì Gianni Rivera con il memorabile epiteto di “abatino”. Proprio quel Rivera che segnò il gol del 4-3 alla Germania allo stadio Azteca di Città del Messico, per la flemmatica gioia di Nando Martellini e quella appena più esuberante dell’ignoto tecnico Rai al suo fianco.