Hikikomori: aprite quella porta

Avatar photo
Society 3.0


Hikikomori: aprite quella porta

Studiato per la prima volta in Giappone, il fenomeno si sta diffondendo sempre più anche nelle nostre società. Per aiutare le famiglie c’è chi si occupa di fare rete, coinvolgendo in primis proprio i genitori. Changes ne ha parlato con Marco Crepaldi.

Lorenzo ha 14 anni e da alcuni mesi ha deciso di ritirarsi nella sua stanzetta, sopraffatto dalle ansie scolastiche. Martina è una sedicenne rimasta segregata in casa per un anno, dopo aver subito ripetuti episodi di bullismo. E poi c’è chi come Fred ha 21 anni ed ha vissuto in casa per quasi metà della sua vita. «Mi sentivo rinato solo isolandomi», ha confidato in un’intervista. Sono casi esemplari di un fenomeno sempre più studiato e analizzato: quello degli hikikomori, letteralmente “stare in disparte” o “ritirarsi”.

Si tratta di un disturbo psichiatrico, non ancora diagnosticato ufficialmente e studiato in Giappone sin dagli anni ’80 e ’90. A coniare il termine nel 1998 è stato lo psichiatra Tamaki Saitō che analizzò il comportamento di tanti adolescenti nipponici che annullando qualsiasi relazione sociale si rifugiavano dentro sé stessi e nelle loro camere.

Complice la pervasività dei media digitali e le conseguenze a lungo termine dei lockdown da Covid 19, hikikomori è sempre più diffuso anche nelle società occidentali. Proprio in seguito alla pandemia, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports di Nature, del gruppo di ricerca Musa del Cnr-Irpps, infatti, le cifre del fenomeno in Italia sono quasi raddoppiate.

Chi sono gli hikikomori e i loro numeri

La crescente rilevanza del fenomeno in Italia ha convinto nel 2017 una rete di studiosi, professionisti e genitori a far nascere l’associazione Hikikomori Italia. Secondo lo psicologo Marco Crepaldi, presidente e fondatore dell’associazione, si può parlare di hikikomori quando la persona «consapevolmente, decide di non far più parte della società e di passare gran parte del proprio tempo isolato all’interno della propria abitazione o della propria camera da letto».

Come sottolinea Crepaldi, a livello definitorio c’è una differenza sostanziale tra Giappone e Italia. Nel Paese nipponico, infatti, «l’hikikomori deve essere necessariamente anche un neet, cioè una persona inattiva che non studia e non lavora e non ricerca nessuna attività. Noi invece tendiamo a considerare hikikomori anche chi va ancora a scuola, ma è isolato per tutto il resto del tempo e invia segnali di potenziale abbandono scolastico». Secondo questa differenziazione in Giappone si parla di «circa un milione e mezzo di hikikomori, mentre in Italia secondo i dati del CNR e dell’Istituto superiore di sanità i casi oscillano tra i 50.000 e i 70.000».

I fattori alla base del fenomeno

Sempre secondo lo stesso studio del CNR ad accomunare le ragazze e i ragazzi che decidono consapevolmente di ritirarsi sono la scarsa qualità delle relazioni sociali, la bassa fiducia nelle relazioni familiari e amicali, l’aver subito atti di cyberbullismo e bullismo, l’iperconnessione da social media, la scarsa attività motoria e l’insoddisfazione per il proprio corpo.

La comunità scientifica è, tuttavia, concorde nel ritenere hikikomori come un fenomeno autoalimentante, in cui alla base ci sono condizioni di contesto e psicologiche individuabili, sempre secondo Marco Crepaldi, «nei disturbi d’ansia sociale, nella paura del giudizio, nell’ansia di non essere all’altezza delle aspettative». L’origine di questi fenomeni ansiosi possono riferirsi alla cerchia dei coetanei, ma molto più spesso riguardano il contesto familiare.

«Iperprotezione e idealizzazione – evidenzia Crepaldi – sono atteggiamenti genitoriali che stritolano il ragazzo, iperprotetto e reso molto fragile, oppure vittima di loro aspettative esagerate». Un fenomeno che, secondo Crepaldi, ha molto a che fare anche con la denatalità «perché meno figli nascono e più tendiamo a sovrainvestire su quelli (pochi) che abbiamo». E non è un caso che Giappone e Italia siano due dei Paesi al mondo con il più basso tasso di natalità.

Come affrontare il problema a livello familiare

Sulla base della vasta esperienza accumulata nel campo dalla associazione che presiede, Marco Crepaldi rileva che «i genitori di solito si attivano solo quando il figlio abbandona la scuola. Lì vanno nel panico e spesso commettono diversi errori, come prendersela con internet, costringere il ragazzo a tornare a scuola, rompendo l’alleanza genitori-figli e portando poi l’isolamento a concretizzarsi non all’interno della casa, ma all’interno della camera da letto». A quel punto l’isolamento consapevole si è attuato ed è in questo momento che l’associazione interviene. «Il nostro primo intervento è a livello psicoeducativo sui genitori, aiutandoli a capire quali sono le buone prassi per portare quantomeno alla riapertura della prima porta, quella della camera da letto». Una porta che può aprire solo il genitore. «Per questo i nostri psicologi lavorano sul ragazzo indirettamente, operando sulla famiglia per spezzare una dinamica autoalimentante che prevede che più il ragazzo si isola, più aumenta l’ansia sociale, più ha paura del tempo perduto e quindi ha più difficoltà a reinserirsi».

Per questo ogni azione coercitiva è dannosa. Ancora più deleteri sono i tentativi di sottolineare gli aspetti negativi di quell’isolamento. «È utile invece – puntualizza Crepaldi- cercare di instaurare un dialogo empatico, non giudicante, dove magari la scuola non è il primo obiettivo a cui ambire, ma si ricostruisce prima l’alleanza con i genitori».

Un possibile alleato delle famiglie: la scuola

In questo scenario un aiuto può arrivare anche dall’ambiente scolastico e dai suoi attori. In questo caso la tecnologia digitale può dare una grossa mano. «Favorire l’educazione domiciliare e la DAD può consentire un reinserimento del ragazzo. È utile anche modificare quegli stili valutativi più ansiogeni, come per esempio le interrogazioni davanti alla classe».

Un atteggiamento del genere presuppone, quindi, che la scuola rinunci a protocolli standard e guardi i singoli individui costruendo, come suggerisce Crepaldi, «dei piani didattici personalizzati in base a quello che il ragazzo riesce a fare».

Un discorso che rischia di diventare utopistico nel mare di problemi in cui navigano le nostre istituzioni scolastiche. Per questo serve la buona politica, «per evitare che tra dieci anni ci si ritrovi con una percentuale di ritirati insostenibile anche per il welfare pubblico». Un approccio non più rinviabile, in un Paese come l’Italia con diverse criticità come «la tendenza a rimanere in famiglia fino a tardi, le difficoltà a entrare nel mondo del lavoro e la vasta sfiducia nei confronti della società che serpeggia soprattutto nelle giovani generazioni».

Avatar photo

Giornalista, pugliese e adottato da Roma. Nel campo della comunicazione ha praticamente fatto di tutto: dalle media relations al giornalismo. Brand Journalist e conduttore radiofonico, si occupa prevalentemente di economia, energia ed innovazione. Oltre la radio ama la storia e la politica estera.