Dipendenti dalle playlist

Una volta erano le cassettine che si registravano per ascoltarle in auto o per fare colpo su qualcuno: i classici “mischioni” di canzoni varie su C-90 o su CD vergine che solo
In una ipotetica partita tra noi e l’intelligenza artificiale vinciamo ancora 1 a 0. Ma il futuro sarà un pareggio. Ecco perché.
«A.I. is coming for Frank Azaria’s ‘Simpsons’ Voices» (in italiano, «l’I.A. è pronto a sostituire la voce di Frank Azaria nei Simpson»). È il titolo di un video del New York Times che mi ha particolarmente colpito, e che vi consiglio assolutamente di vedere. Nel contenuto, che potete trovare sia su TikTok sia su Instagram, Frank Azaria – attore e doppiatore americano – viene coinvolto in un simpatico esperimento: chiedere a un programma di intelligenza artificiale di replicare le voci dei personaggi che interpreta nel popolare cartone “The Simpsons”.
Il risultato? Un clamoroso fallimento. Il doppiaggio dell’aspirante attore artificiale risulta robotico, piatto, privo di emozioni. Azaria stesso commenta con ironia: «Andrebbe benissimo se il protagonista fosse un automa!», aggiungendo che doppiare non significa semplicemente leggere un copione ma dare vita a un personaggio. Se quest’ultimo corre, anche il suo interprete improvviserà una sessione di jogging sul posto. Se gli va di fumare un sigaro, si infilerà una penna in bocca. Se è triste, si darà un pizzico sul braccio per far sgorgare le lacrime. Tutte cose che, per quanto evolute, le IA non possono fare.
La recitazione non è l’unico settore dove l’intelligenza artificiale non è ancora in grado di competere con l’essere umano. Immaginate se il vostro medico fosse Chat-GPT o Gemini. Lo so, state perdendo la pazienza solo all’idea – anche io. Nell’ambito della medicina e dell’assistenza sanitaria, l’IA può aiutare a fare diagnosi e ad analizzare dati, ma non è in grando di creare un legame emotivo con il paziente, considerato un ingrediente essenziale per la guarigione.
C’è un altro campo in cui l’intelligenza artificiale dovrebbe entrare con i piedi, o meglio, gli hardware di piombo: la giustizia sociale. L’IA è in grado di migliorare l’efficienza dei processi giuridici, analizzare enormi volumi di dati e predire l’esito di un caso, ma un sistema giuridico ha bisogno di equità, trasparenza e imparzialità – tutte cose che un algoritmo non può garantire. Immaginate se una macchina prendesse decisioni su questioni delicate come i diritti umani o la libertà individuale: senza senso critico e sensibilità, rischierebbe di riprodurre o persino amplificare i pregiudizi esistenti.
E poi c’è la creatività. L’abbiamo visto con l’esperimento del New York Times: l’intelligenza artificiale può generare contenuti, ma non può dargli un’anima e cioè intenzione, contesto, profondità. Pensate al capolavoro di Herman Melville, Moby Dick; se fosse stato scritto dall’IA, la balena bianca, simbolo dell’infinito mistero dell’universo, sarebbe stata nient’altro che una balena bianca. La stessa cosa vale per Fontana, opera simbolo del ventre materno per Duchamp, un qualsiasi orinatoio per l’IA. E potrei andare avanti all’infinito.
L’intelligenza artificiale è uno strumento potente, sì, ma deve rimanere tale: un alleato che ci aiuti a migliorare, senza sostituirci.
Un po’ come quando tengo un corso. L’IA può aiutarmi a creare un esercizio, ma non potrà mai sostituirmi nell’insegnamento. Per quello servono empatia (e simpatia), energia e contesto. Come nella delicata arte del doppiaggio, devo dare vita al trainer. Quando c’è bisogno di ravvivare l’aula, salto o faccio una battuta. Quando devo spiegare un concetto complesso, provo a capire chi ho di fronte e adatto tono della voce e vocabolario di conseguenza. Quando qualcuno è in difficoltà, gli do una pacca sulla spalla.
Dunque, posso dire che anche in quest’ambito: Nicolò: 1 – IA: 0,5, dai.