C’è l’Abs contro la biopirateria

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C’è l’Abs contro la biopirateria

Si chiama Access and Benefit Sharing e punta a ripartire in modo equo i proventi da risorse naturali. Changes ne ha parlato con Roberto Valenti, esperto di ABS dell'Environmental Biology Department della Sapienza Università di Roma.

Biopirateria: si chiama Access and Benefit Sharing e punta a ripartire in modo equo i proventi da risorse naturali. Changes ne ha parlato con Roberto Valenti, esperto di ABS dell’Environmental Biology Department della Sapienza Università di Roma.

Sono 30 i miliardi di dollari che la Banca mondiale ha deciso di investire per incentivare progetti a sostegno della biodiversità in Africa nei prossimi tre anni. E il 40% di questo tesoro è destinato a programmi di ABS, letteralmente Access and Benefit Sharing. In pratica, la forma più equa di sharing economy. L’importante protocollo internazionale entrato in vigore nel 2014, quasi 4 anni dopo essere stato sottoscritto a Nagoya, in Giappone, ha l’obiettivo di ripartire in modo giusto ed equo i proventi derivanti dall’uso delle risorse genetiche locali, ossia della biodiversità: piante, animali o microbi da parte di scienziati o multinazionali straniere, dando così maggiori garanzie alle nazioni in via di sviluppo. Si tratta di un modo intelligente per combattere la biopirateria, contribuendo a migliorare le condizioni di vita della gente nelle zone più povere del mondo, senza perdere di vista la salvaguardia della biodiversità e la sua sostenibilità in termini ambientali. 

Il protocollo è stato firmato da ben 92 Paesi e recentemente è stato ratificato da più di 50 di essi, tra cui Bielorussia, Burundi, Gambia, Madagascar, Mozambico, Niger, Perù, Sudan, Vanuatu, Uganda e Uruguay. Grandi assenti, per ora, Cina e Stati Uniti. Ma la ratifica da sola non basta. «Si può parlare davvero di ABS solo se il Paese interessato ha anche sottoscritto un protocollo multilaterale o bilaterale, a seconda dei casi, attraverso una procedura standardizzata, per ottenere il Prior informed consent (Pic) e il Mutually agreed terms (Mat)», ha detto Roberto Valenti esperto di ABS dell’Environmental Biology Department della Sapienza Università di Roma. «Il primo è un regolamento che mette a conoscenza delle condizioni dell’accordo lo Stato, le comunità locali e i cosiddetti users, coloro che vogliono utilizzare le risorse genetiche; il secondo documento invece stabilisce i termini della negoziazione sul tipo di accesso a cui gli users sono interessati e la destinazione d’uso della risorsa in questione». 

Solo nei Paesi che hanno firmato questi due importanti documenti non si verificheranno più casi come quello di Henry Wickham, esploratore inglese esperto di botanica, che nel 1876 arrivò a Londra dal Brasile con più di 70 mila semi di Hevea Brasiliensis, la migliore varietà esistente per l’estrazione di gomma naturale. Questi semi in meno di un decennio vennero trapiantati in ogni angolo dell’impero britannico, dall’Africa Occidentale allo Sri Lanka, dall’India alla Malesia, dove botanici e agronomi europei avviarono grandi piantagioni per far fronte alla crescente domanda di gomma da parte dell’industria automobilistica. Risultato? Il rapido declino della città brasiliana Manaus, che negli ultimi decenni del ‘800 si era imposta come principale centro di produzione della preziosa materia prima.

Le aziende condividono il profitto agricolo con il territorio


La storia di Wickham è solo un esempio fra tanti. «Sono ancora tanti i casi di sfruttamento di risorse genetiche che non lasciano assolutamente nulla ai territori che le mettono a disposizione se non una manciata di posti di lavoro sottopagati, quando va bene. Già perché spesso accade che alcune piante con proprietà medicali vengano ancora esportate e coltivate in altri paesi e su altri territori rispetto a quelli di origine proprio come accadde nel 1800 con l’albero della gomma», ha detto Luca Malatesta, coordinatore scientifico del progetto Secosud II, finanziato dalla Cooperazione Italiana in Mozambico attraverso l’AICS, che ha come obiettivo quello di promuovere la conservazione della biodiversità e di uno sviluppo economico sostenibile nella regione dello SADC (Southern African Development Community) e che include anche una specifica componente dedicata ad ABS (biopirateria). 

Nel frattempo, però, qualche buon risultato il protocollo ABS ha iniziato a ottenerlo in ambito biopirateria. Come nel caso della Hoodia gordonii, anche detta Hoodia San, una pianta che cresce spontaneamente in alcune aree del SADC, in particolare nel Sudafrica, in Namibia, in Botswana ed in genere nella parte sud-occidentale dell’Africa meridionale, dove viene normalmente e tradizionalmente usata dalle popolazioni locali “San” per togliere la sensazione di fame. «Le sue proprietà hanno attirato ben presto le società farmaceutiche e parafarmceutiche occidentali che hanno iniziato ad andare in loco per approvvigionarsi di Hoodia San da destinare alla realizzazione di prodotti che favorivano la perdita di peso», ha raccontato Valenti. «Lo sfruttamento è andato avanti fino a poco tempo fa, quando gli Stati interessati hanno siglato un protocollo ABS che ha coinvolto users, ossia le case farmaceutiche produttrici, e providers, ossia le popolazioni locali e gli stati in cui la risorsa genetica cresce». Ciò significa che da quell’esatto momento qualsiasi azienda o compagnia che venda prodotti a base di Hoodia San deve lasciare una percentuale dei suoi profitti a quelle popolazioni, ovvero una royalty che viene inclusa nel prezzo di vendita del prodotto. Questo accordo consente a tutti gli attori coinvolti nello sfruttamento della biodiversità di condividere equamente i profitti derivanti dalla commercializzazione.

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Ho lavorato per 20 anni nelle redazioni di riviste economiche (Gente Money, Panorama Economy) e digitali (News 3.0). Dal 2015 sono freelance. I temi che riguardano il lavoro e il management sono rimasti la mia passione, anche ora che scrivo per l’Italia dal Mozambico. ​​​