Sarà la COP del phase-out?

Environment


Sarà la COP del phase-out?

Perché sullo stop alle fonti fossili si giudicherà in larghissima misura il risultato della Conference of Parties che si tiene dal 30 al 12 novembre a Dubai.

Big Oil contro resto del mondo: provando a metterla in termini sportivi, ma purtroppo sorridendo amaro, la partita della prossima COP28 che si apre a fine novembre in Dubai si potrebbe riassumere così. Perché ormai dopo quasi trent’anni di COP – la prima si tenne a Berlino nel 1995 – gli schieramenti sono chiari a tutti: da una parte chi, in prima linea gli Stati che campano con le fossili e le grandi compagnie dell’oil&gas, ha fatto e continua a fare di tutto per spingere più in là possibile nel tempo la fine della patologica dipendenza del nostro modello di sviluppo dai combustibili fossili, prima causa della crisi climatica; dall’altra, appunto, la larga maggioranza degli Stati e dei popoli del mondo che hanno maturato la piena consapevolezza che o si mette uno stop alle fossili, o non c’è possibilità alcuna di evitare gli impatti più catastrofici del clima impazzito.

L’attesa per la prossima COP si vive con un mix di frustrazione, scetticismo e, comunque, speranza. Che è sempre l’ultima morire ma che stavolta fin dall’inizio è stata messa a durissima prova. E per inizio s’intende l’assegnazione della COP a Dubai, uno dei sette emirati che fanno parte degli Emirati Arabi Uniti, Paese ricchissimo proprio grazie alle risorse petrolifere di cui dispone e che non pare abbia alcuna intenzione di smettere di sfruttare. Ciò in barba agli allarmi che da diversi anni tutte le organizzazioni internazionali competenti in materia lanciano per dire che non c’è speranza di centrare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi del 2015 (quasi otto anni fa) se non ci si pone come traguardo la fine dell’era delle fossili. La nomina del Presidente della COP28 ha poi lasciato di stucco: a presiedere i lavori è stato designato il sultano Al Jaber, amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company, colosso petrolifero degli Emirati Arabi Uniti che ha nei suoi piani per il futuro un aumento della produzione di petrolio.

Proteste

Ha senso tutto ciò? Francamente è difficile trovarlo. Le proteste sono state vibranti, da molte parti e a livello internazionale. Una per tutte, quella di oltre un centinaio di membri del Congresso degli Stati Uniti e del Parlamento europeo che hanno chiesto espressamente che il sultano venisse rimosso dall’incarico. La lettera è stata indirizzata al presidente degli Stati Uniti, al Segretario generale delle Nazioni Unite, al presidente della Commissione europea e al Segretario esecutivo di UNFCC, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite che organizza le COP. Ma non ha sortito gli effetti sperati.

Il senso, però, a ben guardare si trova se si affronta la questione dalla prospettiva opposta, cioè da quella del mondo fossil fuels. La loro presenza è stata massiccia soprattutto nelle ultime COP. Alla COP26 di Glasgow i delegati dell’industria fossile erano oltre 500 e se fossero stati una delegazione nazionale avrebbero costituito quella più numerosa. Peggio mi sento, verrebbe da dire, se si guarda all’ultima COP27 di Sharm el-Sheikh: i lobbisti delle fossili erano oltre 600. Vedremo dove arriverà il contatore in Dubai. Perché l’impressione è che l’industria delle fossili guardi alla prossima COP come a quella in cui sferrare una sorta di attacco finale: non potendo più negare di essere la prima causa del riscaldamento, anzi, dell’ebollizione globale (“global boiling”) in corso, come ha detto Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU, e della conseguente crisi climatica, pardon, collasso climatico (“climate breakdown”, ancora copyright di Guterres), le fossili cercano ora di presentarsi come parte della soluzione.

Non vogliono sentir parlare di riduzione della produzione, tanto meno di un business costretto a volgere al termine. Perciò cercano di spostare l’attenzione dalla riduzione e progressiva eliminazione del business fossile alla riduzione, invece, delle emissioni climalteranti. Nonostante l’utilizzo delle fossili ne sia la prima fonte. E promettono miracoli attraverso una serie di stratagemmi e tecnologie – dai risultati storicamente non provati, quanto meno opinabili e in effetti da molti e su basi scientifiche ferocemente criticati, con accuse di greenwashing che fioccano e non di rado sfociano in contenziosi legali – che negli anni a venire dovrebbero magicamente permettere di continuare a usare i combustibili fossili su larghissima scala. Però inquinando meno. Però contribuendo meno all’ebollizione e al collasso di cui sopra. Però, alla fine, aiutando a risolvere i problemi e non continuando ad alimentarli. Così da ritagliare un ruolo alle fossili anche nel raggiungimento degli obiettivi di neutralità climatica (net zero), evitando che il loro lucroso business venga consegnato alla storia.

Puntare sul phase-out

Ma delle fossili, sulla base della loro storia, c’è poco da fidarsi. A non fidarsi più, dopo aver passato anni ad averci provato, è ad esempio Christiana Figueres, segretaria esecutiva di UNFCC ai tempi della COP21 di Parigi, che qualcosa in materia di negoziazioni sul clima a livello mondiale l’ha vista: «Pensavo che le società fossil fuels potessero cambiare, ma mi sbagliavo», ha scritto Figueres, facendo ovviamente molto rumore. E non si può darle torto se si pensa anche solo che alla COP27 in Egitto furono proprio gli Stati maggiori produttori mondiali di combustibili fossili a impedire che nel documento conclusivo dei lavori (Sharm el-Sheikh Implementation Plan) – com’è noto non prescrittivo ma esortativo – si scrivesse finalmente che l’obiettivo a cui gli Stati devono puntare è il «phase-out» di tutte le fossili. Non solo il «phase-down» del carbone «unabated» (cioè utilizzato senza tecnologie che ne abbattano le emissioni, che rientrano fra le soluzioni che promettono risultati di lungo periodo a dir poco miracolosi, cui si accennava sopra) e neppure solo il «phase-out dei sussidi inefficienti alle fonti fossili», dove nessuno al mondo è capace di indicare dove vada posto il discrimine tra efficiente e inefficiente. Le stesse parole si ritrovano nel Glasgow Climate Pact con cui si era conclusa la COP26. Nessun passo avanti in un anno. E per fortuna anche nessun passo indietro, perché in Egitto in certi momenti si era temuto persino questo.

Il punto è che tra «phase-down»  e «phase-out» c’è di mezzo il mare. Per cui è qui che si giocherà la partita. Alimenta la speranza in questo senso il fatto che l’Unione europea sembra volersi schierare come un sol uomo, per una volta, nella richiesta che alla COP28 si decida finalmente per il phase-out (anche se accompagnato sempre dalla parolina magica “unabated”) di tutte le fossili. Insieme al fatto che le Nazioni Unite, nel documento Global Stockstake preparatorio ai negoziati in Dubai dove si è fatto il punto sui progressi compiuti dagli Stati sugli obiettivi dell’Accordo di Parigi, hanno anch’esse scritto che il raggiungimento della neutralità climatica implica il phase-out delle fossili (“unabated”, anche qui).

Certo, sul tavolo in Dubai ci saranno numerose altre questioni di grande rilevanza. Ad esempio, l’ormai annosa questione dei 100 miliardi di dollari l’anno che i Paesi industrializzati si sono impegnati a mettere sul piatto sin dal 2009, senza però aver ancora mantenuto la loro promessa, per sostenere la transizione ecologica dei Paesi meno industrializzati: una questione che, se si guarda alle cifre mostruose, e in aumento, che finiscono ogni anno in spese militari a livello mondiale, non si può che definire vergognosa. Bisognerà assolutamente proseguire sul tema del loss & damage, dove a Glasgow si è compiuto un passo avanti storico con l’istituzione ufficiale, dopo trent’anni di richieste da parte dei Paesi più vulnerabili di fronte alla crisi climatica, di un fondo per le perdite e i danni.

Tutto importante, tutto da accelerare. Ma è sull’obiettivo dello stop alle fossili che si giudicherà in larghissima misura il risultato della COP in Dubai. Al riguardo, è significativo quanto dichiarato dal governatore della California, intervenuto a settembre a New York al Climate Ambition Summit convocato da Guterres: «La crisi climatica è una crisi legata ai combustibili fossili». La California di recente, oltre ad aver fatto causa a grandi società dell’oil&gas – accusandole di aver mentito per decenni sugli impatti climatici derivanti dall’utilizzo dei combustibili fossili mentre esse ne avevano invece piena contezza -, ha aderito ufficialmente al Trattato di Non-Proliferazione delle fonti fossili di energia, sostenuto tra gli altri dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Uno dei pilastri del #FossilfuelTreaty chiede una cosa molto precisa: il phase-out delle fossili. E «unabated» non c’è.

Giornalista, blogger, storytweeter. Laurea alla Bocconi. Da metà anni ’90 segue il dibattito sui temi di finanza sostenibile, csr, economia sociale. Blogga su mondosri.info. Homo twittante.​​​​