Che cos’è il consumo critico

«Votare con il portafogli»… quante volte avete sentito questa espressione? Se non avete ben chiaro come si possa mettere in pratica questa scelta, ve lo spieghiamo oggi. Ta
Ridare ad ambienti ed ecosistemi modificati in modo radicale dall’attività antropica il loro aspetto naturale. Pro e contro delle iniziative che puntano all’equilibrio ambientale.
Nel celebre Parco Nazionale di Yellowstone, negli Stati Uniti, negli anni ‘90 del secolo scorso la reintroduzione dei lupi, che per decenni erano stati assenti, ha permesso il contenimento della popolazione di alci e cervi e la ripresa della vegetazione, con benefici effetti sugli equilibri ecosistemici. Il Parco Nazionale Patagonia, in Cile, sempre a partire da metà anni ‘90 è stato oggetto di una serie di attività, da parte di attori privati e pubblici, fra cui la rimozione di migliaia di capi di bestiame e di centinaia di chilometri di recinzioni, e la mappatura, monitoraggio, reintroduzione, protezione di specie come puma e condor: oggi è un modello di riferimento per tutto il mondo. Per stare in Italia, nel delta del Po, una delle aree umide più importanti d’Europa per la ricchezza della sua biodiversità, si è lavorato al ripristino dell’ambiente paludoso, alla rimozione di specie invasive e alla reintroduzione di specie autoctone. Mentre nell’Appennino Centrale si sono attivati piani per la tutela dell’orso bruno marsicano, anche attraverso la predisposizione di corridoi faunistici.
Sono solo alcuni, all’interno di una casistica ormai sterminata a livello internazionale, dei più conosciuti e riusciti progetti, iniziative, sperimentazioni di rewilding, o rinaturalizzazione. Termine con cui si indicano i processi attraverso i quali si cerca, come dire, di ridare alla natura le chiavi di casa della natura stessa. Di far sì, cioè, che ambienti ed ecosistemi modificati in modo radicale, per non dire danneggiati se non addirittura devastati, direttamente o indirettamente, dall’attività antropica, possano ritrovare nel modo più spontaneo possibile il loro equilibrio. Affinché habitat e paesaggi degradati possano ripararsi, rifiorire, recuperare funzionalità e autosufficienza. Tornando appunto “selvaggi” (wild) com’erano prima che l’uomo vi lasciasse le sue impronte.
A coniare il termine rewilding fu nel 1992 l’ambientalista statunitense Dave Foreman, scomparso nel 2022, autore di numerosi volumi e fondatore del Rewilding Institute. Sul cui sito si danno due definizioni di rewilding. Quella estesa parla di uno sforzo di conservazione completo, e spesso su larga scala, che si focalizza sul ripristino della biodiversità sostenibile e della salute dell’ecosistema mediante la protezione delle principali aree di natura selvaggia, la connessione fra quelle aree e la protezione o reintroduzione dei predatori al vertice della catena alimentare e delle specie altamente interattive (definite specie chiave). La definizione sintetica, invece, si limita a tre “C”: conservazione di “Cores” (le principali aree di cui sopra), di “Corridors” (le connessioni), e di “Carnivores” (i predatori carnivori).
I vantaggi del rewilding sono numerosi e interconnessi. Quello centrale è ovviamente il ripristino della natura selvaggia, con riferimento a specie e processi autoctoni. Con le specie a rischio estinzione comprese. C’è poi il ripristino degli habitat naturali e il miglioramento della loro resilienza. E, importantissima, la tutela della biodiversità. Ancora, il recupero della naturale morfologia dei luoghi (ad esempio riguardo ai corsi d’acqua compresi); la prevenzione di malattie e pandemie, perché ecosistemi in salute riducono i rischi di zoonosi (vedi Covid-19); anche il contrasto all’eco-ansia, diffusa soprattutto fra i giovani e giovanissimi.
Poi c’è il legame, forte, con la transizione ecologica e in particolare con il contrasto alla crisi climatica. Cosa che con ogni probabilità rappresenta uno dei motivi per cui negli ultimi anni si è preso a parlare di rewilding con sempre maggiore insistenza. Il legame deriva dal fatto che habitat come foreste e zone umide, quando non più degradati e restituiti ai loro equilibri, possono finalmente svolgere in modo egregio ed efficace la loro funzione naturale di “carbon sink”, cioè di depositi naturali di CO2 che sequestrano e stoccano nel suolo e nella vegetazione l’anidride carbonica presente in atmosfera. Al riguardo, da uno studio di un paio d’anni fa (“Trophic rewilding can expand natural climate solutions”, citato da Forbes) è emerso che attraverso iniziative di rewilding, cioè di protezione o ripristino di una serie di popolazioni di animali selvatici – fra le quali balene, squali, gnu, buoi muschiati, bisonti americani -, si potrebbero catturare quasi 6,5 gigatonnellate di CO2 equivalente l’anno. Soluzione indicata in ambito scientifico con l’acronimo ACC (“animating the carbon cycle”), che si basa sul fatto che questi animali contribuiscono alla cattura di CO2 semplicemente vivendo nel loro habitat, contribuendo a mantenerlo in equilibrio e a farlo funzionare come carbon sink.
Allo studio aveva dato ampia evidenza anche la Global Rewilding Alliance, fra le principali organizzazioni internazionali nel campo del rewilding. Oltre a promuovere il 20 marzo di ogni anno il World Rewilding Day, ha elaborato la Global Charter for Rewilding the Earth in cui sono elencati i principi del rewilding: sono dodici in tutto e parlano ad esempio delle relazioni che stanno alla base della vita sulla Terra, di come la natura sia tanto più alleata nella lotta contro la crisi climatica quanto più la si lascia condurre, dell’importanza di raccontare storie a lieto fine per cambiare il mondo, di avere una visione di lungo periodo, di pensare in modo creativo. A organizzare invece dal 1977 il World Wilderness Congress è WILD Foundation. Mentre in Europa uno dei principali riferimenti è Rewilding Europe.
Insieme ai tanti “pro”, anche il rewilding ha ovviamente dei “contro” o, meglio, dei rischi. Ad averli messi in evidenza con chiarezza è stata IUCN (International Union for Conservation of Nature), organizzazione leader nel mondo nel campo della conservazione della natura: i rischi principali sono legati soprattutto a iniziative di rewilding eccessivamente calate dall’alto e in difetto di engagement. Che, cioè, non coinvolgono come dovrebbero, specie nella pianificazione, le popolazioni che abitano e vivono delle risorse (tramite la caccia, la pesca, l’agricoltura, la silvicoltura) che le aree oggetto dei progetti di rewilding offrono loro. Economicamente parlando, in ogni caso, i benefici del rewilding sembrano surclassare i costi: secondo alcuni studi, il rapporto fra costi e benefici di un programma di conservazione della natura selvaggia, che se realizzato su scala globale potrebbe arrivare a costare intorno ai 500 miliardi di dollari, sarebbe almeno di 1:100.
C’è anche da considerare un altro aspetto. Se il primo “rewilder” della storia, come li chiama la Treccani, si può a ragione considerare il citato Dave Foreman, oggi quella del rewilder è una vera e propria professione. O, meglio, una famiglia di skill professionali e possibili percorsi di carriera, come si vede scorrendo gli annunci sui siti dedicati. Al punto che c’è chi inserisce il “rewilding specialist o strategist“ fra le professioni del futuro. Anche perché si è aperto un ulteriore filone, detto urban rewilding, che cerca di applicare concetti e pratiche del rewilding alle città: forse paradossalmente, ma a pensarci bene neanche troppo, dato che le città sono fra gli ambienti su cui la mano dell’uomo ha inciso in modo più radicale.
Se un giorno, quindi, i vostri figli dovessero dirvi che da grandi vogliono fare i rewilder – magari iniziando con programmi di volontariato come quelli offerti in Italia da Rewilding Appennines -, potreste rispondere che è un lavoro dalle grandi prospettive. Ma soprattutto di cui c’è un estremo e urgente bisogno.