Pedalando verso il benessere
Continua il viaggio di Grammenos Mastrojeni alla ricerca di soluzioni che possono condurci con i nostri comportamenti verso una felicità sostenibile. Abbiamo esplorato il tema del
Conflitti politici, inflazione, speculazione, blocchi logistici e produttivi. Tutti questi fattori hanno portato al centro della scena globale una materia prima data per scontata fino a ieri.
La guerra del grano si gioca in due teatri e con due tempi diversi.Il primo ha un perimetro preciso ed una turbolenza recente. È marcato da un conflitto attuale su scarsità energetiche, ritardi nella logistica e prezzi instabili. Ma potrebbe anche essere cancellato a breve, con l’illusoria scomparsa del protagonista dalla scena. C’è però un secondo teatro di guerra più latente, segnato dal tempo. Ha origini lunghe, connesse al consumo di suolo, di acqua, ed all’aumento demografico. Meno notiziabili, ma con un termine quasi inafferrabile e difficile da compiersi.
È stato il conflitto russo-ucraino a portare il grano sui media internazionali. L’ha fatto velocemente e in modo eclatante. Con altrettanta velocità potrebbe anche ritirarlo dal palco ed archiviarlo nei libri di storia economica come una delle tante guerre originate dalla contesa di materie prime o prodotti alimentari, come quella per il merluzzo tra Islanda e Regno Unito tra il 1950 e 1970. Ma perché oggi l’economia mondiale ha geolocalizzato l’interesse per il grano sulla più ampia area del Mar Nero, che riguarda appunto la Russia e l’Ucraina?
Le ragioni per cui il puntatore della Google Maps della globalizzazione è stato posto qui sono due. La prima è produttiva. Ucraina e Russia hanno quasi un terzo della produzione mondiale di grano e l’intera regione del Mar Nero esporta più del 10% delle calorie alimentari vendute globalmente.
Il vantaggio competitivo dietro a una capacità produttiva così elevata da consentire quasi due raccolti all’anno è espresso con generosità dalla natura: quasi il 65% della terra coltivabile ucraina è ricoperto dal černozëm, un fertilissimo terreno scuro e carico di humus. Generato dalla decomposizione delle erbe della steppa, è presente solo sull’1,8% della terra del pianeta, ma è così concentrato in questa zona (quasi un quarto del totale globale) da renderla nota come “granaio del mondo”.
Il secondo motivo d’interesse deriva invece dalla geografia. La logistica esportativa del grano della zona si esprime tutta nei porti ucraini, unico imbuto per portarlo in quel mondo a cui il blocco navale russo ha ricordato un’ennesima volta quanto sia importante dove si fanno e da dove vengono le cose che consumiamo.
Mettere un tappo alla logistica della zona significa pertanto inibire sia la produzione che il commercio; ed avendo questo tappo una genesi politica, c’è anche la possibilità di toglierlo per vie altrettanto politico-diplomatiche, ed eventualmente in tempi brevi.
Ciò però non risparmia al mondo due problemi differenti, ma entrambi urgenti, derivati spesso da questo genere di blocchi.
Il primo è la scarsità a singhiozzo, che in Occidente porta inflazione e una speculazione in parte gestibile, ma non deflagrante, che probabilmente si traduce “solo” in momentanei vai e vieni di rincari di pane e biscotti. Questa stessa speculazione può invece avere conseguenze peggiori nei paesi più poveri. Per Libano, Egitto, Turchia, Bangladesh, Tunisia, Yemen e Libia – per esempio – prezzi più alti non significa semplicemente spendere di più, ma consumare di meno del necessario bisogno giornaliero. Significa fame.
Nel sud del Mediterraneo, infatti, ci sono Libia ed Egitto che dall’Ucraina ricevono il 70% del bisogno alimentare, e ci ricordano lo sfortunato gruppo di 53 paesi – circa 200 milioni di persone – con un rischio alimentare sulle spalle.
Il parossismo che ha fatto notare l’evidente questione globale del grano è quindi sostenuto da una manciata di fattori simultanei ed anche momentanei: conflitti politici, inflazione, speculazione, blocchi logistici e produttivi. L’occasione unica di avere il faro puntato sul tema, ci offre oggi la facoltà di scartarne quelle momentanee e selezionare invece le ragioni profonde della complessità che investe il grano come molte delle risorse alimentari del pianeta. Molti degli studiosi di risorse sostengono infatti e giustamente che la produzione funzioni, le scorte ci siano, e come per molti altri generi alimentari di base, queste difficoltà periodiche siano spesso una questione di razionalizzazione. È tutto vero. E se da una parte si punta all’efficienza, dall’altra si può anche spingere sulla produttività. L’aumento della capacità produttiva è infatti connesso a tre elementi come:
Ma quanto è difficile pensare globalmente a razionalità e produttività mentre la deforestazione, il pascolo e la coltivazione eccessivi rendono i suoli sempre più vulnerabili, per esempio all’erosione di acqua e vento? Se ancora una volta prendiamo ad esempio le terre ucraine, anche queste non sono esenti da rischi connessi al clima – come la desertificazione, il dissesto idrogeologico o le tempeste di sabbia – in grado di minare la capacità produttiva di grano ed altri cereali e prodotti della terra. Aumento di temperature, carenza di piogge e siccità sono dunque gli elementi profondi che si abbattono sul grano anche nella gestione idrica ad esso legata ed inevitabilmente svantaggiata dallo stress da acqua.
Se poi si considera che il 90% del sostentamento della popolazione mondiale arriva dall’agricoltura, è inevitabile considerare la crescita demografica come primo fattore di appesantimento di un sistema cronicamente in disequilibrio tra domanda ed offerta. Anche se il commercio globale dovrebbe favorire un livellamento tra domanda ed offerta, tra chi produce più del necessario e chi meno, spunta sempre il rischio fame con le instabilità sociali che ne derivano. Le sfide per il grano, i cereali e i prodotti agricoli sono quindi ben due, ed è un’illusione affrontarle con le stesse armi, le stesse strategie e soprattutto gli stessi tempi di esecuzione.