Perché non possiamo fare a meno di Taiwan

Technology


Perché non possiamo fare a meno di Taiwan

Per immaginare l’economia globale senza la produzione tecnologica che arriva da quest’isola, dovremmo pensarla senza quell’unica vite che fa funzionare quasi tutto il meccanismo intrecciato delle catene del valore globali.

Una storiella americana – quasi una leggenda metropolitana perché di difficile attribuzione – racconta di una grande impresa manifatturiera, probabilmente una cartiera di Chicago, che si blocca per un guasto. Viene chiamato un ex dipendente esperto, ormai in pensione. Arriva, dà un occhio al macchinario, sistema una vite e l’impresa riparte. Ma presentata una parcella di 10.000 dollari, il titolare chiede le ragioni di una cifra così alta per aver solo girato una vite. Ed ecco la risposta a fare la storia: un dollaro è per aver girato la vite, 9.999 sono per aver saputo quale vite girare. Per immaginare l’economia globale senza Taiwan, dovremmo pensarla senza quell’unica vite che fa funzionare quasi tutto il meccanismo intrecciato delle catene del valore globali.

La vite dorata di Taiwan

Gli esperti di catene di fornitura le chiamano golden screws, viti dorate. Sono quelle parti o componenti o prodotti decisivi per il funzionamento di un processo produttivo, di un settore, di un mercato. Sono indispensabili, strategiche, spesso invisibili. Sono cose di cui non possiamo fare a meno, ed in questo caso dobbiamo pensarle incastonate nel paese che oggi è nel mirino della geopolitica cinese.

La ragione per cui possiamo considerare Taiwan la vite d’oro della globalizzazione tecnologica è l’eccezionale concentrazione produttiva, ospitata sul suo territorio, di componenti decisivi per le catene produttive tecnologiche. Parliamo dei semiconduttori e dei microchip, ovvero l’hardware dell’universo digitale: i microchip sono dispositivi elettronici complessi costruiti con materiali semiconduttori, principalmente di silicio, in forma di wafer. E il Paese è leader mondiale, in particolare, per i semiconduttori avanzati, la cui punta di lancia è la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), azienda fornitrice e partner di imprese come NVIDIA, Apple, Qualcomm.

Le ipotesi di embargo o conflitto

Dunque, cosa accadrebbe se la Cina abbracciasse tutte le motivazioni che ha per muoversi verso Taiwan traducendole in un’azione concreta? Vediamo queste ragioni:

  • ragioni tecnologiche: controllare la leadership produttiva di semiconduttori e componenti tecnologici;
  • ragioni geo-economiche: controllare uno degli stretti più importanti per i flussi globali di prodotti;
  • ragioni politiche: unificare il paese con Taiwan per motivi identitari e simbolici e completare il principio di Una sola Cina;
  • ragioni militari: proiettare più efficacemente la sua potenza militare nel Mar Cinese Meridionale e la sua presenza nel Pacifico occidentale;
  • ragioni storiche: ricostruire i legami familiari e culturali con un territorio considerato parte del paese.

Se le ragioni sono dunque almeno cinque, per capire quale di queste sia la più importante possiamo farci aiutare da un vecchio proverbio cinese, secondo cui è meglio perdere mille soldati che un palmo di territorio. Oppure dall’economista Adam Smith, che in barba al suo liberismo sosteneva che la difesa è molto più importante della ricchezza (1778). Ma quale sarebbe allora l’azione più probabile con cui la Cina potrebbe mettere le mani su questa isola per lei così importante dal punto di vista territoriale?

  • la prima è l’embargo, ovvero il blocco dei flussi di merci o persone o anche denaro attraverso armi burocratiche, normative o sanzionatorie;
  • la seconda è l’invasione fisica, col prevedibile dispiegamento di uomini e mezzi, preceduto e poi accompagnato da più livelli di attacco a postazioni militari, o strategiche per trasporti e collegamenti per l’estero e la comunicazione.

Le 5 conseguenze economiche e geopolitiche

In entrambi i casi le conseguenze economiche dirette ed indirette sull’economia della regione o quella globale sarebbero misurabili in diversi trilioni di dollari (Bloomberg si spinge a contarne addirittura 10). Ma nel complesso, con l’esperienza del Covid, della guerra in Ucraina e dell’inflazione, possiamo immaginare un dispiegarsi di almeno cinque conseguenze in questo ordine di comparizione:

  1. Paralisi e blocchi produttivi di impianti localizzati a Taiwan (semiconduttori, microchip, tecnologia);
  2. Scarsità a valle di queste produzioni;
  3. Ricadute e coinvolgimenti diretti in settori e prodotti come computer, smartphone, elettrodomestici, automobili, dispositivi medici e apparecchiature industriali, dispositivi elettronici come LED, celle solari e sensori;
  4. Inflazione, prima diretta su questi settori e prodotti, poi su settori e produzioni a valle o connesse a questi;
  5. Redistribuzione della leadership di filiera: prendono il testimone i fornitori globali in seconda e terza posizione, quelli dopo Taiwan.

Le incognite: sanzioni e trasloco

Ora però fermiamo il waltzer delle ipotesi per inserire qualche variabile incognita. Proviamo ad inserire nella valutazione delle conseguenze sulla globalizzazione tecnologica di un’economia senza Taiwan due variabili non provate da fatti concreti, ma supportate solo da narrazioni sul tema diffuse in ambito politico.

  • Sanzioni costose. Contraddice l’idea che la Cina sia solo interessata alle motivazioni politiche e territoriali legate all’invasione di Taiwan. Sta infatti valutando bene l’impatto economico dell’opzione invasione perché impaurita dalle sanzioni applicate alla Russia: quanto le nuocerebbe essere isolata dall’economia occidentale da un giorno all’altro?
  • Trasloco frettoloso. Riguarda l’Europa: da almeno due anni a Bruxelles si pensa che una volta trasferita tanta parte della produzione di componentistica tecnologica in Occidente, si possa “lasciare” Taiwan al suo destino, quindi in mano alla Cina.

Come in una spy story, Usa ed Europa sarebbero nel momento loading file, in cui il protagonista sta trasferendo in fretta dei dati ed è in attesa che si carichino sulla chiavetta Usb. Usa e Ue hanno infatti stanziato 52,7 miliardi di dollari con il Chips & Science Act e 43 miliardi di euro con il Chips Act per realizzare il grande trasloco da Taiwan degli asset preziosi (la produzione oggi, e forse il personale domani?). Ma basterà? E i tempi saranno sufficienti? La Cina sta forse aspettando la fine del trasloco per muoversi?

La lezione per l’economia globale

In ogni caso, la lezione per l’economia globale riguarda i flussi di merci, persone, capitali, e le filiere: affinché si muovano liberamente e senza incepparsi, la concentrazione di prodotti critici in un solo Paese va evitata.Ma questa potrebbe essere una storiella solo europea. Dato che agli Usa non interessano solo l’indipendenza produttiva e la libera circolazione di prodotti, persone e capitali, ma la sicurezza e il controllo sul Mar Cinese Meridionale.

​Antonio Belloni è nato nel 1979. È Coordinatore del Centro Studi Imprese Territorio, consulente senior di direzione per Confartigianato Artser, e collabora con la casa editrice di saggistica Ayros. Scrive d'impresa e management su testate online e cartacee, ed ha pubblicato Esportare l'Italia. Virtù o necessità? (2012, Guerini Editori), Food Economy, l'Italia e le strade infinite del cibo tra società e consumi (2014, Marsilio) e Uberization, il potere globale della disintermediazione (2017, Egea).