Chi abiterà il mondo di domani?

Society 3.0


Chi abiterà il mondo di domani?

Secondo le proiezioni mondiali, nel 2100 una 65enne avrà solo 25 parenti in vita. In Italia, nel 2050, le 90enni saranno più numerose delle bambine di un anno. Come la struttura demografica delle Nazioni plasmerà il nostro futuro? Changes ne ha parlato con Massimo Livi Bacci, demografo e autore di un saggio sui trend demografici globali.

Uno studio recentemente pubblicato nei Proceedings of the National Academy of Sciences, tra le più autorevoli pubblicazioni scientifiche statunitensi, ha previsto come cambieranno le dimensioni e la struttura delle famiglie entro la fine del secolo. I ricercatori hanno stimato che una donna di 65 anni nel 1950 aveva 41 parenti vivi nella sua famiglia allargata. Secondo le proiezioni, nel 2100 una 65enne avrà solo 25 parenti in vita. «Se poi guardiamo a livello italiano, la situazione appare ancora più estrema» spiega Massimo Livi Bacci, professore emerito dell’università di Firenze e autore di La geodemografia-Il peso dei popoli e i rapporti tra stati (il Mulino). Per esempio, tra oggi e il 2050, le persone con più di 80 anni (i veri anziani, spesso assai fragili) cresceranno da 4,5 milioni di oggi a 8 milioni; l’età mediana da 48 a 53 anni, cosicché un cinquantaduenne potrà dire che appartiene alla metà “più giovane” del paese. Le famiglie composte da una sola persona cresceranno del 17%, salendo da 8,4 a 9,8 milioni nel giro di venti anni. Nel 2050, secondo le previsioni dell’Istat, le donne di 90 anni potrebbero essere più numerose delle bambine di 1 anno, loro bisnipoti.

Sono cifre che sbalordiscono, perché il peso della demografia nella traiettoria delle nostre vite viene spesso sottovalutato. È naturale: se riprendiamo la metafora del demografo ed economista francese Alfred Sauvy, e consideriamo il mondo come un orologio, la politica è la lancetta dei secondi, che corre via veloce ed è inseguita, appunto, dai politici; l’economia è la lancetta dei minuti, il cui scorrimento è comunque visibile, mentre la demografia si muove in ore, apparentemente ferma, ma fondamentale nel lungo periodo.

Sta quindi nella lungimiranza, nella capacità di guardare lontano la risposta all’invecchiamento e alla denatalità che affligge i Paesi ricchi, che ormai devono aprirsi a forze esterne per colmare i propri vuoti demografici. Ma sta qui una delle sfide attuali, che pochi sembrano avere accolto: oltre che programmare i flussi migratori, occorre investire su chi arriva. «Occorre una politica, possibilmente condivisa e proiettata nel lungo periodo. che investa nella formazione e istruzione di immigrati regolari e che garantisca loro i basilari diritti sociali e un equo accesso ai diritti politici», sostiene Livi Bacci.

In assenza di questa lungimiranza, i migranti vengono usati più come una minaccia per gli altri che come una risorsa per sé. Il patto tra Unione europea e Turchia del 2016 è emblematico circa l’intreccio tra migrazione e rapporti tra Stati, esemplifica il docente. «Nel 2014-15 la guerra civile in Siria sospinse milioni di profughi fuori del paese verso gli Stati confinanti attraverso la Grecia e per la rotta balcanica verso il cuore dell’Europa. La Turchia aprì la porta ai profughi contando anche sulla brevità del conflitto. Nel marzo 2016 venne siglato un patto con la Turchia, rinnovato nel 2023, che accettò di chiudere le porte (di uscita) ai rifugiati accolti nel suo territorio in cambio di un contributo di 6 miliardi di euro in 6 anni destinati a fornire assistenza umanitaria, istruzione, salute, infrastrutture locali e sostegno socioeconomico ai rifugiati. In sostanza, la UE esternalizzò i propri confini. È quindi evidente che la Turchia possiede una forte arma di pressione verso l’Europa: se dovesse venire meno la funzione di diga che essa ha assunto si creerebbe rapidamente una situazione di crisi simile a quella del 2015 in un’Europa ancora profondamente divisa sulle politiche migratorie» commenta lo studioso.

Ma il peso della demografia è determinante anche per la stabilità di vaste aree del mondo. Oltre al caso della Turchia, dove Erdogan teme la crescita molto più rapida, a causa dell’alta natalità, della popolazione curda rispetto al resto della popolazione turca, va ricordato il Libano, dove i cristiani maroniti erano in maggioranza negli anni ’30 e ’40, mentre adesso sono in netta minoranza rispetto alla componente musulmana; in Iugoslavia, la componente kosovara e secessionista, a lungo è cresciuta molto più rapidamente della maggioranza serba. C’è poi il caso d’Israele: alla sua costituzione, nel 1948, la componente araba aveva più alta natalità della maggioranza ebrea, e c’era il forte timore di un’alterazione dei rapporti di forza (demografica) nel paese, e che la componente ebrea divenisse minoranza rispetto alla popolazione araba nell’intera Palestina: questa eventualità, al contrario, non si è verificata negli ultimi vent’anni.

Tutti gli esempi sopra citati suggeriscono che sia necessaria l’inclusione della demografia nella costruzione del futuro che ci aspetta. Occorre che tutte le Nazioni si coordinino per valutare il peso dei popoli alla luce dei possibili fattori di destabilizzazione: dalle possibili migrazioni climatiche alle eventuali nuove epidemie globali, fino all’avvento di tecnologie dirompenti che potrebbero creare surplus di forza lavoro nel mondo di domani. Dopo la transizione verde e quella digitale, serve una transizione demografica perché tutti insieme si possa costruire una società più stabile e meglio distribuita. La geodemografia ci aiuta ad analizzare tutte le variabili in campo.

Mantovana, giornalista da oltre 15 anni in Mondadori, collabora a numerose riviste nazionali su temi di attualità e stili di vita. Ha collaborato a una monografia sul cinema di Steven Spielberg e curato la traduzione dall’inglese di un saggio sul Welfare State. ​