Sei consigli per difenderci dalla plastica
La plastica è presente nella nostra vita quotidiana da oltre settant’anni ed è così fondamentale che la diamo per scontata senza renderci conto della sua pervasività. Secondo
Sperimentare le modalità di adattamento degli uomini in un ambiente ostile aiuta la scienza. Ecco come la ricerca che parte dagli astronauti può migliorare la vita di tutti.
«Noi immaginiamo le missioni spaziali come qualcosa di estremamente tecnologico. Per arrivare a quel punto, però, servono altre missioni, più semplici: quelle chiamate analoghe, che si svolgono in zone remote del nostro Pianeta e sono artigianali, con un approccio per tentativi, perché dobbiamo immaginare qui e ora cosa può succede a un astronauta che se ne sta da solo a milioni di km dalla Terra». Per Alessandro Frigerio, ricercatore dell’Istituto nazionale di Astrofisica di Roma, l’esplorazione dell’ignoto da sempre implica la capacità di affrontare l’inaspettato, e dunque l’elemento umano conta quanto la tecnologia. Per questo motivo, sperimentare le modalità di adattamento degli uomini in un ambiente ostile, come può essere l’Antartide o l’infuocato deserto del Messico, fa la differenza. Ecco perché, dalla fine degli anni ’90, gli scienziati spaziali studiano la fisiologia e la psicologia di volontari mandati a vivere in 20 strutture spaziali analoghe in tutto il mondo.
La prima missione analoga ufficiale della NASA ha avuto luogo nel 1997, nella Valle della Morte, dove quattro persone hanno trascorso una settimana prendendo campioni di rocce alla pari di geologi su Marte. Nel 2000 la Mars Society, un’organizzazione di difesa e ricerca di esplorazione spaziale, ha costruito la Flashline Mars Arctic Research Station a Nunavut, in Canada, e poco dopo ha replicato con la Mars Desert Research Station nello Utah. Ma in realtà una sperimentazione di questo tipo è stata messa in atto molto prima: nell’era delle missioni Apollo, per dire, gli astronauti erano soliti provare le manovre dei rover e le passeggiate spaziali, insieme a varie tecniche scientifiche, in Arizona e Hawaii. Oggi agli scienziati interessa soprattutto capire come reagiscono la mente e il corpo a un lungo periodo in isolamento, o quanto impiegano a riadattarsi alla realtà quotidiana dopo una solitudine durata 8 mesi o più.
Tra le scoperte più recenti effettuate in questo tipo di ambiente ci sono i risultati di uno studio HERA (Human Exploration Research Analog), pubblicato con un titolo suggestivo (e scherzoso): Houston, we have a teamwork problem. Condotto da scienziati delle università Northwestern e DePaul, ha dimostrato che nel tempo i team di astronauti diventano sempre più affiatati e abili nell’esecuzione comune di compiti fisici, ma peggiorano quanto a prestazioni intellettuali e creatività. Il che potrebbe suggerire agli scienziati di ridurre le sfide alla lucidità mentale di chi sta in orbita predisponendo automatismi o comandi da terra per alleviare i compiti degli astronauti verso la fine della missione, quando lo stress si fa sentire sul cervello. Un altro risultato, ottenuto alla Mars Desert Research Station, è stata la sperimentazione di un sistema per riparare le ossa rotte delle gambe utilizzando un dispositivo low cost, detto “fissatore per fratture”, che potrebbe funzionare su Marte: l’eventualità di un incidente può sempre verificarsi nello spazio e quindi va previsto come rimediare. Un altro equipaggio, guidato da ricercatori della Griffith University, ha eseguito un test per estrarre acqua utilizzando il gesso disponibile sulla superficie di Marte e sottoponendolo a un processo di riscaldamento, disaggregazione e distillazione.
Anche Frigerio, nell’ambito del progetto chiamato Amadee (un programma di ricerca dell’Austrian Space Forum, che punta allo sviluppo di hardware, flussi di lavoro e scoperte scientifiche per le future missioni di superficie planetaria umano-robotica), nel 2020 ha diretto un esperimento in cui l’obiettivo era ricercare l’acqua sotto le rocce. Si è trattato di allenare un ipotetico “astronauta” a usare un ground penetrated radar, detto Scanmars, che permette di ottenere vere e proprie immagini del sottosuolo tramite la ricetrasmissione di onde elettromagnetiche nel terreno. «ScanMars doveva essere operato da personale non specializzato nell’utilizzo di radar, in un ambiente estremo e vestito con prototipi di tute spaziali. La sfida più grande di ScanMars era determinare le condizioni dell’esperimento e il tipo di addestramento da impartire al personale che avrebbe simulato la missione in Oman». E infatti l’uso del radar da parte di un team di non scienziati ha fatto emergere alcune criticità: «Abbiamo capito che occorre selezionare le informazioni fornite all’equipaggio per rendere più efficace l’addestramento di chi si trova a usare uno strumento senza avere anni di esperienza alle spalle, come succede agli scienziati che hanno predisposto la missione» spiega Frigerio.
Al momento, inoltre, le sfide principali della sperimentazione analoga sono due: da un lato si tratta di standardizzare le linee guida delle missioni, prevedendo per ognuna un obiettivo di ricerca pre-convalidato dal coordinatore dell’habitat, una linea temporale per il completamento della ricerca e una successiva elaborazione dei risultati. Gli standard dovrebbero riguardare anche la creazione di una banca dati della ricerca, mettendo a sistema tutti i progetti analogici in un unico luogo. In questo modo, i team non duplicano gli sforzi e collegano meglio i loro studi alle esigenze stabilite dalle agenzie spaziali. Il secondo obiettivo, secondo Frigerio, dovrebbe essere quello di ampliare l’accesso agli esperimenti relativi alle missioni spaziali agli studenti delle scuole superiori.
Istruire solo pochi fortunati, che andranno nello spazio fa dimenticare che l’esplorazione del cosmo ci riguarda tutti e che pertanto è giusto coinvolgere più menti possibili, argomenta il ricercatore. Per di più, i risultati delle missioni determinano conseguenze nella vita quotidiana di tutti: per esempio, i sensori fotografici degli odierni cellulari sono stati provati sulle sonde spaziali negli anni ‘90. E i Vad (dispositivi di assistenza ventricolare), che ora aiutano il cuore di chi ha problemi di pompaggio del sangue sono nati grazie ad una collaborazione tra una start up medica e la NASA.
Per questo motivo le polemiche sul costo di missioni apparentemente poco concrete non ha senso, conclude Frigerio: «L’Esa, l’agenzia spaziale europea, ha calcolato che il costo della missione Rosetta, che circa 20 anni fa si proponeva si studiare l’origine delle comete, che addirittura non ha escluso che la vita sulla terra sia stata “portava da fuori”, sia costata a ogni cittadino europeo l’equivalente di una pizza l’anno. Una missione su Marte costa 2,4 miliardi di dollari: l’indotto annuale per lo Stato italiano delle sigarette è di circa 8-10 miliardi». Ma vogliamo mettere quale delle due pratiche è più utile al futuro dell’umanità?