La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
La pressione per troncare il rapporto tra università e industria fossile prende di mira due ambiti: il sostegno alla ricerca su crisi climatica e transizione energetica ad ecologica e il recruitment. Cosa sta accadendo.
«Ritengo che questo rapporto sia antitetico ai valori accademici e sociali fondamentali delle università, che ne possa addirittura compromettere la capacità di affrontare l’emergenza climatica (…) L’accademia e la scienza non dovrebbero aiutare, neanche involontariamente, il greenwashing fossile»: sono alcuni passi della lettera aperta con cui verso fine anno scorso il professor Marco Grasso ha deciso di dimettersi dall’incarico di direttore dell’unità di ricerca “Antropocene” del Centro di Studi Interdisciplinari in Economia, Psicologia e Scienze Sociali (CISEPS), presso l’Università Bicocca di Milano.
Cos’era successo? È presto detto: il professore aveva da tempo fatto presente che non condivideva l’accordo di collaborazione con Eni che il proprio ateneo aveva siglato mesi prima per svolgere congiuntamente con l’azienda progetti di ricerca su temi legati alla transizione energetica. In qualità di esperto riconosciuto su tali argomenti (autore di pubblicazioni fra cui Tutte le colpe dei petrolieri. Come le grandi compagnie ci hanno portato sull’orlo del collasso climatico (Piemme, del 2020) e il più recente e liberamente fruibile From Big Oil to Big Green. Holding the Oil Industry to Account for the Climate Crisis (MIT Press), il professore sa infatti perfettamente che proprio l’utilizzo di combustibili fossili è di gran lunga la prima causa del riscaldamento climatico e dell’emergenza climatica in atto. E sa anche che nel mondo i big dell’oil&gas stanno continuando a pianificare estrazione e produzione di combustibili fossili – tra l’altro in ciò largamente supportati dalla grande finanza internazionale, che a parole invece si fa in quattro per dichiarare di essersi incamminata con decisione sul sentiero del green e della sostenibilità -, nonostante tutte le agenzie internazionali competenti in materia affermino ormai in modo inequivocabile che è una cosa che non ci possiamo più permettere, e che quindi non andrebbe fatta, se il mondo fa sul serio nel perseguire gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Accordi come quello contestato dal professore, quindi, non fanno altro che legittimare l’industria fossile e aiutarla nel greenwashing. Quanto agli atenei, accettare la collaborazione (e il sostegno finanziario per la ricerca) dell’industria fossile, per giunta su temi legati proprio alla transizione energetica, mina la credibilità del loro impegno sulla sostenibilità e ne danneggia la reputazione.
L’uscita del professore della Bicocca ha avuto una certa eco. È stata ad esempio menzionata dall’Associazione dei Geografi Italiani. Siti di informazione indipendente ma anche quotidiani di rilievo nazionale ne hanno parlato o comunque sui propri siti hanno dato spazio alla lettera aperta. C’è chi ha dialogato col professore per cercare di spiegare ancora più in profondità le sue motivazioni. La cosa è stata ripresa anche da qualche sito internazionale molto attento alle questioni legate alle fossili e all’emergenza climatica. A fine febbraio, pochi giorni prima dell’ultimo #GlobalClimateStrike dei Fridays For Future, il professor Grasso è stato invitato a portare la sua testimonianza all’incontro Eni e Università: un rapporto tossico organizzato all’Università Statale di Milano (si può rivederlo qui).
Si è parlato molto meno, però, del punto che appare più decisivo, e cioè: la presa di posizione del professore della Bicocca è stata un caso isolato? La si può archiviare, e proporla specie ai non addetti ai lavori, come un colpo di testa o poco più? A tale domanda si può dare una risposta netta: no, tutt’altro. Solo che per motivarla occorre fare lo sforzo di uscire un attimo dai patri confini, anche solo con un click o un tap. Allora si può vedere facilmente che il grido “fuori le fossili dalle università” sale sempre più forte, in modo prepotente e talora quasi arrabbiato, da più parti nel mondo universitario e a livello internazionale. In particolare, la pressione per troncare il rapporto tra università e industria fossile prende di mira due ambiti: il sostegno alla ricerca, e in particolare quella che ha ad oggetto la crisi climatica, il clima, la transizione energetica ad ecologica, come nel caso dell’accordo Bicocca-Eni; e il recruitment.
Riguardo al primo ambito, quello della ricerca, il riferimento è la campagna internazionale Fossil Free Research. È stata lanciata da un gruppo di accademici, esperti di clima, membri universitari e si rivolge prima di tutto alle università britanniche e statunitensi. E chiede loro – citando letteralmente dalla dichiarazione che campeggia sulla homepage del sito della campagna – di porre fine all’influenza tossica del denaro dei combustibili fossili sulla ricerca universitaria relativa ai cambiamenti climatici. La motivazione su cui la campagna poggia è assolutamente allineata a quella esposta dal professore che ha salutato il suo prestigioso incarico, presumibilmente raggiunto con sudore e fatica, alla Bicocca. E si può articolare nei seguenti punti, come viene del resto fatto nella lettera aperta (già firmata da oltre 800 accademici, insieme a più di 130 istituzioni) disponibile sul sito. Dove si spiega che, per le università, accettare il denaro di cui sopra:
A settembre 2022 la prestigiosa Università di Princeton è stata la prima ad adottare una Fossil Free Research Policy, come la campagna chiede, “dissociandosi” da novanta società dell’oil & gas con cui non accetterà più di stringere rapporti di partnership a fini di ricerca. Più di recente le istanze della campagna sono state integrate in un manifesto studentesco per un Green New Deal per le università a stelle e strisce.
Il secondo ambito su cui si sta salendo la pressione, quello del recruitment, è invece nel mirino di un’altra campagna che si riassume in un hashtag: #FossilFreeCareers. A lanciarla è stato il network studentesco britannico People and Planet, attivo sui fronti della giustizia climatica e ambientale e di quella sociale. Che ha iniziato a chiedere alle università del proprio Paese, nello specifico ai loro Career Service che aiutano gli studenti a inserirsi nel mondo del lavoro, di tagliare i ponti col mondo fossil fuels. Di non offrire più, cioè, i loro servizi a favore dell’industria dell’oil & gas come pure dell’industria mineraria. Il che significa:
–rifiutare di stringere nuovi rapporti con tali compagnie;
–rifiutare di rinnovare gli eventuali rapporti in corso;
-adottare una Ethical Careeer Policy, che escluda esplicitamente tali società.
La prima ad adottare una politica del genere è stata nei mesi scorsi la BirkBeck University di Londra. A fine gennaio, diceva il conteggio sul sito della campagna, altre tre università del Regno Unito si erano aggiunte.
Entrambe quelle segnalate sono campagne giovani e che per giunta si rivolgono dichiaratamente, almeno in via prioritaria, al mondo universitario anglosassone. Ma in Italia pare non ve ne sia ancora traccia. Eppure, specie per quanto riguarda il fronte del recruitment, lo aveva detto mesi fa lo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, proprio parlando a una platea di studenti universitari in New Jersey. Prima aveva chiarito senza possibilità di equivoco a chi si stava riferendo, affermando che «sappiamo che investire nei combustibili fossili è un vicolo cieco: nessuna quantità di greenwashing (…) può cambiarlo». Poi era andato dritto al punto e non avrebbe potuto essere più chiaro: «Il mio messaggio per voi è semplice: non lavorate per i distruttori del clima».
Fra docenti e studenti delle università italiane, a parte il professor Grasso, qualcuno era in ascolto?