Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
Da Davos arriva forte il messaggio che per cambiare le cose serve il contributo di tutti. Il cambio di passo è importante. E se la crisi climatica ci stesse facendo diventare adulti?
Di solito, ambiziosi si è per sé stessi, magari contro gli altri. Ma questo termine strano – strano nel contesto – si è imposto nei negoziati climatici a indicare che dobbiamo darci mete sempre più stringenti se vogliamo scongiurare il tracollo del clima: raise climate ambito è ormai il mantra delle CoP, un’ambizione non per sé stessi ma per il comune destino. La stranezza ha un suo perché: segna un passaggio dal vecchio al nuovo. Si lascia alle spalle quasi un ventennio di negoziati ispirati all’idea che la politica – i governi e gli apparati – avrebbero dovuto imporre dall’alto la soluzione, vietare, regolare, contenere un’economia che lasciata a sé stessa avrebbe perpetrato e amplificato la rovina planetaria. Difficile da comprendere un approccio subliminale alla questione climatica di questo tipo sposato proprio dalle economie liberali, quelle che credono nella “mano invisibile” del mercato, capace di distribuire, se lasciato funzionare in santa pace, il maggior vantaggio sociale possibile. Eppure, era questo il nostro approccio istintivo, radicato sulla prima analisi sistematica dei costi economici legati al riscaldamento globale pubblicata nel 2006 da Sir Nicholas Stern – già economista capo della Banca Mondiale – ove si definiva la sorte del clima “il peggior fallimento dell’economia di mercato”.
Ora – e la CoP di Glasgow ha registrato questa nuova visione – si cambia registro: occorre l’ambizione. Ambiziosi, per sé o per tutti, infatti si può essere come singoli; l’ambizione nasce dentro ciascuno di noi a significare che non si ottiene nulla con delle regole imposte contro le ambizioni individuali, mentre la soluzione nasce dalla somma cooperativa degli interessi di tutti. Ma le CoP sono roba da Governi: l’economia reale – quella che ci si sentiva in dovere di imbrigliare per evitare il peggio – sta al gioco?
L’economia reale ha un suo club, vicino agli apparati pubblici, ma pur sempre diverso da loro, un ritrovo di poteri economici: il World Economic Forum, ovvero Davos. Quel Davos che il 14 gennaio 2021 ha definito la crisi climatica potenzialmente “cataclismica” e che quest’anno ha fatto proprio il linguaggio dell’ambizione: quello del contributo di tutti, perché a tutti conviene evitare il tracollo e solo con ciascuno a fare la propria parte ci si può riuscire. E così – invito tutti a leggere il testo integrale sul sito – il Foro dell’economia reale conclude che “Ognuno di noi, indipendentemente dalla sua storia, dalla geografia, dal reddito, dalla razza o dal credo, sarà colpito dalla crisi climatica. Nessuno potrà scappare ritirandosi nell’isolamento e nel protezionismo. Siamo molto più connessi e interdipendenti di quanto pensiamo, condividendo i nostri beni comuni globali di biodiversità, clima, terra, oceano e acqua. Che ci piaccia o no, siamo legati insieme nella costruzione e nella protezione del futuro del nostro mondo”.
E se questa è la dichiarazione di principio, ne segue un concreto cambiamento di metodo. Davos si allinea alla sensibilità delle CoP e parla di gestione condivisa e il partenariato per:
E se la crisi climatica, in fondo, ci stesse facendo diventare adulti?