Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
C’è una minaccia sistemica che ci riguarda tutti. L’ecologismo e l’ambientalismo di facciata sono diventati dilaganti e mostrarsi sostenibili è una moda pericolosa.
Ecologismo o ambientalismo di facciata, strategia di comunicazione finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale: si legge nella definizione che Wikipedia offre di greenwashing, anche se c’è chi preferisce chiamarlo meno morbidamente “ipocrisia verde”. Se ne parla da tempo, ma sul fenomeno non c’è mai stata tanta attenzione come ora. Come mai? Forse perché nell’era in cui non si può non mostrarsi sostenibili, il greenwashing è diventato dilagante. In generale nell’ambito della sostenibilità e in particolare della finanza sostenibile.
In Italia, a mettere nero su bianco che il greenwashing è al centro della scena è stato ad esempio il 2° Rapporto Censis-Assogestioni, secondo il quale dai risparmiatori italiani emerge una forte domanda di trasparenza, autenticità e verificabilità quando si parla di investimenti sostenibili, perché il timore è appunto farsi ingannare dal greenwashing. A livello europeo, Esma (European Securities and Markets Authority, l’authority europea dei mercati finanziari) ha addirittura inserito il contrasto al greenwashing in cima alle priorità della sua strategia per la finanza sostenibile nel prossimo triennio. Anche perché non sembra essere bastata l’entrata in vigore a livello Ue del regolamento SFDR (Sustainable Finance Disclosure Regulation): come ha fatto notare Morningstar a suon di numeri, infatti, ciò ha prodotto un gigantesco fenomeno di “rebranding” attraverso il quale si cerca di far passare o, meglio, classificare come sostenibili – di riffa o di raffa, verrebbe da dire – più fondi possibile, con l’evidente rischio di greenwashing. A livello mondiale, anche se ancora in riferimento a quanto sta accadendo principalmente in Europa, è stato il Movimento Laudato si’ (ex-Movimento Cattolico Mondiale per il Clima) a lanciare un appello che chiede direttamente al Consiglio europeo e al Parlamento europeo di «respingere» l’Atto delegato della Commissione Ue sulla ormai celebre tassonomia, con cui si vorrebbero inserire il gas e il nucleare fra le attività nelle quali è possibile investire in modo sostenibile dal punto di vista ambientale: «Le persone di fede disinvestono su larga scala da carbone, petrolio e gas dannosi e reinvestono in soluzioni climatiche per concludere finalmente che non c’è futuro per un greenwashing delle compagnie di combustibili fossili e dei governi che sovvenzionano l’ingiustizia climatica», recita l’appello senza mezzi termini.
Si potrebbe continuare a lungo in questo elenco, ma il messaggio non cambierebbe: la sostenibilità e soprattutto la finanza sostenibile hanno un grosso problema. Il suo nome è greenwashing. È un problema grave che, per restare alla finanza, rischia di minare la credibilità di un modo di guardare agli investimenti che dopo decenni si è finalmente e definitivamente affermato. Come ha detto la stessa Banca d’Italia, che in un recente intervento ha messo il greenwashing fra le principali sfide future che attendono la finanza sostenibile.
Per provare a inquadrare correttamente il problema, torniamo per un momento alla citata iniziativa di Esma. Dove si spiegano due questioni che non si possono trascurare quando si affronta il tema greenwashing. La prima riguarda il fatto che ad aver creato lo spazio, enorme, per la crescita del greenwashing è stata la fortissima accelerazione nella domanda di investimenti Esg (che cioè integrano elementi ambientali, sociali e di governance). Se la sostenibilità non fosse diventata rapidamente la principale bussola che orienta le decisioni d’investimento – quanto meno a livello di dichiarazioni d’intenti -, il fenomeno non avrebbe raggiunto, e in così poco tempo, queste dimensioni. Tanto che il greenwashing si è ormai imposto come un argomento di cui non si può non parlare negli eventi di settore, spesso anzi ne è al centro. Invece, vedendo salire vertiginosamente la domanda per non dire la voglia di sostenibilità di chi investe, dal lato dell’offerta sono tutti saltati in fretta sul carro del vincitore, col rischio però di farlo schiantare per il troppo peso. Mesi fa, ad esempio, è stata la Banca per i Regolamenti Internazionali (la cosiddetta “banca centrale delle banche centrali”) a parlare apertamente di rischio bolla per gli investimenti Esg.
La seconda questione è più complessa ma altrettanto importante. Si riferisce al fatto che il greenwashing è un fenomeno non semplice da mettere a fuoco perché può derivare da cause differenti e assumere varie sembianze. Si fa presto a dire greenwashing, insomma, ma ci sono molti tipi di greenwashing. Diversi al punto che anche il nome utilizzato per identificarli può cambiare.
Oltre al greenwashing classico, per esempio, c’è l’“impact washing”, che fa riferimento al mondo della finanza a impatto sociale, o impact investing. Il ragionamento è il seguente: se si vuol far credere che ogni tipo di investimento o comunque di attività ha un impatto sociale, allora niente è effettivamente a impatto. Per cui bisogna essere molto selettivi e precisi quando si definisce o meno un investimento a impatto. Quando invece per nascondere le malefatte, o almeno deviare l’attenzione da esse, si usano gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (o SDGs, Sustainable Development Goals), si parla in quel caso di “SDGs washing” oppure di “blue washing”, perché gli SDGs sono di emanazione Onu e il blu è appunto il colore dell’Onu. Quando poi all’interno di un obiettivo net-zero (di neutralità climatica) si mette dentro un po’ di tutto, magari senza basi scientifiche particolarmente solide e privilegiando le azioni nel medio-lungo periodo rispetto al breve, si parla di “net-zero washing” o anche di “climate washing” e “carbon washing”. Ancora, si parla di “social washing” quando per mascherare si utilizzano attività a sfondo sociale. Quando al centro di tali attività ci sono i giovani si parla di “youth washing”, quando ci sono le questioni legate alla diversità si parla di “rainbow washing” (perché la bandiera arcobaleno è il simbolo solitamente utilizzato dai movimenti LGBT), e così via. Ma non basta, perché terminologia a parte c’è una forma di greenwashing ancora più subdola e difficile da individuare: è quella, sempre per stare nel mondo degli investimenti, di chi propone sul mercato prodotti finanziari effettivamente ineccepibili dal punto di vista delle credenziali di sostenibilità. Solo che questi prodotti magari rappresentano solo una piccola o a volte piccolissima parte dell’offerta complessiva di prodotti d’investimento che fa capo a quel soggetto finanziario, a quella società d’investimento, mentre la parte più cospicua è costituita da prodotti che hanno poco o nulla a che fare con la sostenibilità o, persino, sono dichiaratemente speculativi: in casi del genere diventa evidentemente complicato credere alla buona fede di chi afferma di aver integrato pienamente la sostenibilità in tutta la sua offerta d’investimento.
A certificare, per così dire, quanto vasto e serio sia diventato il fenomeno greenwashing, e quanto complicato ma doveroso sia affrontarlo, alla fine sono arrivati i contenziosi che proprio da accuse di greenwashing prendono le mosse. E che stanno definitivamente spostando la partita del greenwashing sul terreno giuridico. In Italia aveva già fatto storia la multa comminata a Eni dall’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) per pubblicità ingannevole, prima volta in cui nel nostro Paese una sanzione dell’authority per la concorrenza si basava sul concetto di greenwashing. Ma ha fatto ancora più clamore, e se ne parlerà senza dubbio in futuro come di una pietra miliare, l’ordinanza con cui a fine anno scorso il Tribunale di Gorizia ha accolto il ricorso, fondato sul greenwashing, dell’azienda Alcantara contro la concorrente Miko: è stata la prima pronuncia sul tema da parte della magistratura ordinaria in Italia. Il nostro Paese comunque non è un’eccezione, poiché quella dei contenziosi e delle “climate litigation”, spesso fondate proprio su accuse di greenwashing, è una tendenza a livello mondiale che diventa ogni giorno più robusta e diversificata: ha messo nel mirino per primi gli Stati (incolpati di inazione climatica, di non mettere cioè in campo le politiche necessarie a raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, come anche nella causa intentata allo Stato italiano), poi le grandi corporation (specie quelle legate alle fonti fossili) e ora sta arrivando a interessare la finanza ai più alti livelli, vale a dire quello delle banche centrali. Le quali hanno infatti iniziato a porre la lente sul fenomeno a livello di sistema attraverso il loro network sulla finanza verde.
Perché il punto è proprio questo: il greenwashing costituisce ormai una questione sistemica, anzi, una minaccia sistemica. Potenzialmente non risparmia nessuno. E ci riguarda tutti. Circa un anno fa la Commissione europea ha pubblicato i risultati di un’indagine sui siti web di imprese appartenenti a vari settori economici. L’indagine mirava a verificare la fondatezza delle affermazioni sui temi “green”: è stato ritenuto che le affermazioni potesse essere false o ingannevoli nel 42% dei casi. L’allarme greenwashing, insomma, è suonato.