La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
A un anno dall’inizio della pandemia, anche le parole che diciamo sono diverse. Tra vecchi e nuovi termini abbiamo dovuto imparare un altro linguaggio, per definire l’incertezza.
A un anno dall’inizio della pandemia, anche le parole che diciamo sono diverse. Tra vecchi e nuovi termini abbiamo dovuto imparare un altro linguaggio, per definire l’incertezza.
Pochi giorni fa il virus, almeno in Italia, ha festeggiato il suo primo compleanno. Siamo ormai a febbraio 2021. Aspettavamo tutti che il 2020 diventasse un brutto ricordo per lasciarci tutto alle spalle. E invece. Vorrei poter dire che del virus ormai non c’è più traccia, che è un ricordo ormai lontano, ma non è così.
Se ne continua a parlare e sono tante le parole che usiamo per farlo.
Da una parte ci sono le nuove parole che abbiamo dovuto imparare, molte delle quali davvero sconosciute ai molti. Una su tutte ne fa da padrone: Lockdown
Lockdown nasce dall’unione di due termini inglesi, “lock” e”down“, in inglese, si scrive di filato, senza interruzioni. In italiano i termini più adatti per tradurlo sono “isolamento“, “blocco“. Nel caso in cui venga usato come un verbo (“to lockdown“) il modo più appropriato per tradurlo nella nostra lingua è “blindare“, “bloccare
Lockdown. Un termine che entra di prepotenza nelle nostre vite perché ci rinchiude nelle nostre case.
Ma dall’altra ci sono le “tante parole usuali” che hanno preso in sé tanti nuovi significati, come se avessero inglobato le nostre ansie.
Facciamo qualche esempio.
Iniziamo con la parola “misurare”. La prima cosa che mi è venuta in mente è il concetto studiato a scuola in filosofia con Protagora, il più celebre dei sofisti, che affermava:
«L’uomo è misura di tutte le cose
Delle cose in quanto sono
Delle cose che non sono
In quanto non sono».
In poche parole l’uomo era al centro di ogni “misurazione” e le cose erano intese come oggetti percepiti, realtà generali e valori.
E oggi? La rivoluzione va oltre il significato stesso della parola, ma impatta proprio sul concetto stesso. L’uomo non è più la misura. Sono cambiati i parametri, sono cambiate le cose da misurare. E le cose “sono”, “esistono” indipendentemente da come le vede l’uomo.
Oggi infatti “misuriamo” senza avere certezze. Misuriamo il virus, che esiste indipendentemente dalla ns percezione. Ne misuriamo la letalità, la contagiosità, la letalità. Più in generale ne misuriamo gli effetti. Ma le misurazioni non hanno dati certi.
Noi non abbiamo più misura di cose certe. Noi misuriamo le ipotesi.
Contingentare: è un verbo transitivo che usato in economia, significa regolare con provvedimenti di contingentamento. Ad esempio contingentare le “importazioni”
Nell’estensione del suo significato indica: “sottoporre a limitazione”. Ad esempio: limitare le immatricolazioni”.
E ora? Contingentare per noi ha significato e significa tanto altro: contingentare gli ingressi.
Al supermercato, nei negozi, ai bar. Contingentare significa fare la fila, sempre e comunque. Sempre e dovunque.
Varianti. Fino ad oggi quando sentivo parlare di varianti pensavo soprattutto ad un ambito squisitamente linguistico. Un termine, un vocabolo poteva avere una variante regionale, una variante morfologica o semplicemente una variante grafica. Quindi cambiamenti, ma non sostanziali, cambiamenti intesi come “modifiche limitate” agli specifici utilizzi, a specifici contesti.
Oggi? Sentiamo parlare di variante inglese, brasiliana, sudafricana…perfino napoletana. Ma ahimè la regionalizzazione o la nazionalizzazione poco hanno a che fare con la linguistica, ma purtroppo sono solo i paesi di provenienza delle mutazioni (cambiamenti) di questo benedetto virus.
«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». È la famosa frase che Giuseppe Tomasi di Lampedusa fa pronunciare al suo Tancredi ne Il Gattopardo. Quanti di noi effettivamente vorrebbero che tutto tornasse come prima? Eppure forse tutti sappiamo che non è più possibile. In questo caso le varianti sono variazioni definitive e indietro non si torna.
Il minimo comune denominatore di tutte le limitazioni che in qualche modo caratterizzano ognuna delle parole di cui sopra è ancora un’altra parola: paura
La paura è atavica. È dentro di noi da sempre. Il filosofo Umberto Galimberti così la definisce: «Emozione primaria di difesa, provocata da una situazione di pericolo che può essere reale, anticipata dalla previsione, evocata dal ricordo o prodotta dalla fantasia».
In sintesi abbiamo paura quando ci sentiamo in pericolo. Quindi il presupposto resa “invariato” ma le paure cambiano perché cambiano i pericoli stessi, perché cambia l’ambiente che ci circonda, perché cambiano le nostre consapevolezze. Sono nate nuove sindromi come quella ormai tristemente famosa della capanna o del prigioniero, ovvero la paura di lasciare la propria abitazione dopo tanti mesi di lockdown.
Certo c’è una speranza in più: il vaccino, anzi i vaccini. Vorrei poter davvero credere che vedremo presto la luce fuori dal tunnel. Dovremmo poi ancora rimboccarci le maniche e raccogliere i mille pezzi di una realtà che si è sgretolata e che ormai fa fatica ad esistere se non nei nostri ricordi. Nulla sarà come prima. Si parla ormai di “nuova normalità”. Diciamo che anche prima parlare di cosa fosse davvero normale e cosa non lo fosse non era poi così scontato. È un bene forse? Chi lo sa. Come diceva il Manzoni nella sua poesia del 5 maggio: Ai posteri l’ardua sentenza.